giovedì 14 novembre 2019

Innanzitutto io credo che - per arrivare a sentirsi autenticamente figlio di qualcuno, sia in senso letterale che metaforico – bisogna battere, nolenti o volenti, e paradossalmente, le piste disagevoli e un po’ amare del tradimento.
Vale a dire: bisogna provare ad attestarsi altrove dalla corrente, diciamo così, naturale, del proprio sangue, dei proprio cromosomi, e questo altrove, poi, guardare, considerare, capire, studiare, ciò che ci lega sul serio, nel profondo, al nostro imprinting originario, gettando a mare, quando è il caso, come inutile e dannosa, tutta la trita zavorra del luogo comune, del pregiudizio, del folclore, della passività imitativa dei modelli tramandati. Bisogna farsi, insomma, prima di tutto, estranei, stranieri, forestieri, rispetto a se stessi, rispetto al proprio genòma, rispetto al proprio habitat di nascita e cultura, e poi tornare in patria. Bisogna, idealmente e concretamente, camminare, camminare, allontanarsi, estradarsi, esularsi, per terre e lingue ignote, per capire veramente di chi si è o di chi si è stati – magari senza neppure sospettarlo – autenticamente figlio o adolescente.