giovedì 26 dicembre 2013

martedì 24 dicembre 2013

tempest

Lu viecchio ceveriello è frasturnato…
 Nun ve preoccupate, e se ve fa piacere
 jatevenne int’ ‘a grotta mia, pe’ ripusà.
Faccio duje passe pe’ calmà la mente ca nun trova arricietto:
scioscia e sbatte

venerdì 20 dicembre 2013


[....] a Rosignano ci andavamo almeno una volta al mese, dai nonni.
Di mio nonno paterno ho pochi ricordi, ma tutti molto belli e silenziosi.
Una volta andammo insieme in piazza, davanti all'Arci, mi indicò una targa su un muro e mi raccontò dell'anarchico Pietro Gori e poi mi comprò un gelato. Rimasi in mezzo agli altri vecchietti, ai muratori come lui che chiacchieravano, senza annoiarmi, senza stancarmi, senza bisogno di correre o giocare, perchè davvero in quel momento il tempo si era fermato. Questo quando ancora stava bene. Perchè poi si ammalò, anche se io non capii molto bene, ero ancora un bambino. Però non usciva più, non parlava più, dimagriva e stava sempre in pigiama. Si toccava qualcosa, forse un catetere, forse una ferita d'operazione, non ricordo bene adesso, e mia nonna lo picchiava sulla mano come se fosse anche lui un ragazzino. Mi spiaceva. Una domenica pomeriggio, dopo un pranzo, mamma mi disse che loro, tutti gli adulti, dovevano fare un giro fuori. Non volevano portarmi e si inventarono che dovevo rimanere con nonno. Avevo voglia? Si. Appena uscirono tutti, i miei genitori gli zii e anche i cugini, il nonno mi sorrise, poi si alzò in piedi e mi indicò, senza parlare, perchè non parlava più, un mobile nel soggiorno. Mi avvicinai al mobile. Annuì, sorrise e indicò col dito in alto. Spuntava una scatola nera, di cuoio. Presi una seggiola e raggiunsi la scatola. Lui annuiva. Dentro c'era un vecchio cannocchiale. Lo afferrò. Mi fece cenno di seguirlo alla finestra. Mi affacciai. Eravamo al quinto piano di un palazzone della 167 di Rosignano Solvay, intorno c'erano altri edifici popolari, da un lato la Coop, dall'altro l'Aurelia e la ferrovia, davanti il mare e più indietro le immense ciminiere grigie della fabbrica. Erano ciminiere davvero enormi, e io mi ricordo che, come due imbecilli, ignari dei veleni, io e mio padre facevamo a gara a chi aveva la ciminiera più grossa: vinceva lui, perchè quelle di Rosignano erano più grandi di quelle di Scarlino e Piombino. Nonno puntò il cannocchiale, poi lo spostò di poco. Sorrise. Poi si abbassò al livello dei miei occhi, rimise a fuoco, e mi fece cenno di guardare. Ero stregato da quella situazione. Quale segreto di pirati aveva scoperto? Misi gli occhi nel cannocchiale e vidi nel casermone popolare di fronte una signora che rigovernava i piatti all'acquaio, col grembiule. Staccai gli occhi dalle lenti. Guardai nonno. Sorrideva felice. Poi portò un dito davanti al naso. "Silenzio. Non lo diciamo a nessuno". Io annuii, sorridendo. Davvero il tempo si era fermato.
[.....] (da Amianto, di Renato Prunetti)

sorgiva

se ci inoltriamo più indietro ancora per scoprire la vita sorgiva da cui è scaturita l'onda che sempre ci avvolge naufraghiamo nel buio dell'irrappresentabile.
non ci giova aver abbandonato il sussulto evanescente di ciò che vive ora,
se invece voltiamo le spalle al passato e sezioniamo ciò che ci sta di fronte per cogliere la vita mentre fluisce in noi
allora ogni volto forma corposità colore figura della vita che ci circonda sembra ovunque scomporsi in frammenti di passato.
la concretezza del mondo presente è un astrazione mascherata lungamente elaborata prima di noi e da noi
ogni fremito è una menzogna
ogni immagine un miraggio
il modello dell'integrità.
l'uomo moderno è spezzato, frammentario
ciò che la collettività si attende dall'individuo e presuppone in lui
è sempre diverso da quello che egli scopre in se stesso come autentico
sorgivo
e c'è qualcosa di più che una formica che vuol lasciare dietro di se una traccia durevole tra le apparenze
il suo strascico di cometa o di lumaca viene frantumato dal mondo umano non dalla sua ostilità ma semplicemente dalla sua estraneità
dalle sue regole dai suoi comportamenti dalle sue consuetudini.
nella collettivià l'espressione dell'individuo non riecheggia.

è tempo di mettersi in ascolto

frammenti di immagini di cinema diventano raramente ossessione, impigliate in una rete, capaci di ritornare di nascosto senza preavviso su un treno affollato.

femminile


“Si doveva schiodare il mito dalla croce infamante del sesso. Io, Don Giovanni lo sono stato. Lo sono stato nei letti sfatti, nel sudore insensato dei corpi. Lo sono stato sempre di più nell’urgenza che veniva sempre meno. Nel desiderio che mi abbandonava..”

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riappropriazione: 'o cappiello

nu garofano d'ammore



Geografia commossa dell'Italia interna

Sono partito dalla percezione del corpo, perché il corpo mi dava pensieri, il corpo faceva salire alla testa pensieri più che sensazioni. Questi pensieri si mettono in un’area della testa che si potrebbe chiamare area dell’apprensione: è quest’area che mi porta a disperare del mio corpo, a sentirlo incapace di avvenire. Ogni corpo ha una sua idea di avvenire. Nel mio caso un’idea bruciante, pochi mesi, pochi giorni, poche ore. Questa immaginaria salute precaria s’incrocia con la reale salute precaria dei luoghi in cui vivo. E allora la ricognizione dei luoghi è il frutto di uno spostamento d’attenzione, dal sintomo del corpo al sintomo del luogo, dall’ipocondria alla desolazione. La mia scrittura non ha il rigore della scienza, non vuole e non può essere attendibile. Il primato della percezione sul concetto, del particolare sull’astrazione. Questo non deve trarre in inganno, la mira è comunque altissima e non ho bisogno di concordare con nessuno il bersaglio. La paesologia non vuole fare riassunti o postille al lavoro altrui. In un certo senso è una disciplina indisciplinata, raccoglie le voci del mondo, sente quel che vuol sentire, dice quello che vuole dire. Un lavoro provvisorio, umorale, ondivago e volatile. La vicenda si complica quando si pronuncia la parola “politica”. In questo caso la fragilità non è più una forza, ma un qualcosa che dà i nervi. Perché la politica è o dovrebbe essere un’elaborazione collettiva. Il pericolo e l’opportunità è che al punto in cui siamo arrivati anche la politica appartiene alle discipline dell’immaginario. Non si sa che strada prendere e allora si fanno arabeschi, congetture. La modernità finisce ogni giorno e ogni giorno prolunga la sua esistenza con una magia collettiva che occulta ciò che è in piena evidenza: non crediamo più alla nostra avventura su questo pianeta. Non abbiamo nessuna religione che ci tiene assieme, nessun progetto da condividere. La paesologia denuncia l’imbroglio della modernità, il suo aver portato l’umano dalla civiltà del segno alla civiltà del pegno. Navighiamo in un mare di merci, e intorno a noi è tutto un panorama di navi incagliate: le nazioni, gli individui, le idee, tutto è come bloccato in un presente che non sa volgere la sua fronte né avanti né indietro. In uno scenario del genere una politica possibile è la poesia. La poesia non è il fiore all’occhiello, è l’abito da indossare, ma prima di indossarlo dobbiamo cucirlo e prima di cucirlo dobbiamo procurarci la stoffa. La poesia ci può permettere di navigare nel mare delle merci lasciandoci un residuo di anima. La poesia è la realtà più reale, è il nesso più potente tra le parole e le cose. Quando riusciamo a radunare in noi questa forza, possiamo rivolgerci serenamente agli altri, possiamo scrivere, possiamo fare l’oste o il parlamentare, non cambia molto. Quello che conta è sentire che la modernità è una baracca da smontare. Una volta che la baracca è smontata, piano piano impareremo a guardare la terra che c’è sotto per costruire in ogni luogo non altre baracche, ma case senza muri e senza tetto, costruire non la crescita, non lo sviluppo, costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa, un senso intimamente politico e poetico, un senso che ci fa viaggiare più lietamente verso la morte. Adesso si muore a marcia indietro, si muore dopo mille peripezie per schivare la fine. E invece c’è solo il respiro, forse ce n’è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l’arte della vita. Altro che moderno o postmoderno, altro che localismo o globalità. La faccenda è teologica. Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia. (franco arminio)

#simapoichihaincendiatocittàdellascienza?

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)

Arturo Nicolodi

diventare adulti


 Parole, parole, parole
 Si stanno creando solchi profondi, fra chi è dentro e chi è fuori, fra giovani e adulti, fra precari e garantiti, fra possidenti e nullatenenti… Come tenere insieme i pezzi? In passato sono state le parole a saldare le generazioni, sono state orazioni civili e grandi narrazioni a tenerci insieme, a legare nel patto sociale chi è distante nelle possibilità materiali. La sensazione è che questo oggi non basti, anzi. Il marketing e la pubblicità hanno corrotto la comunicazione, la ricerca spasmodica del consenso nella società della comunicazione ha portato a promettere tutto, a disegnare sogni con le parole, alla seduzione come logica di relazione: ora si è consumato il tempo in cui i frutti maturano, le promesse si avverano, il riscontro è possibile, e il bluff è palese. L’immigrazione si è fermata, qualcuno torna indietro, i canali Mediaset non funzionano più da sirena per i più giovani perché i format sono planetari, e qui tutto è saturo, in mano ad adulti e vecchi che non arretrano dalle loro posizioni di privilegio. Per questo i ragazzi popolano la notte e il web, gli unici spazi rimasti liberi, e diffidano delle parole, del verbale degli adulti, perché tutto è già stato smentito. Anche un bambino sa che la pubblicità mente per sedurre – ma non sa che oggi preferisce costruire storie e personaggi per affiliare, per cooptare il suo immaginario – mentre dalla comunicazione istituzionale ci si attende altro, il resoconto della realtà. L’approfondimento, invece, o lo svelamento delle vicende più complesse, si avrebbe voglia di leggerlo sui giornali. Non è così: la realtà trapela da intercettazioni, disposte da magistrati e passate ai giornali, mentre le inchieste televisive sono fatte sulle libere denunce dei cittadini, ma se subisci un torto o qualcuno di caro scompare sono i carabinieri a suggerirti di “chiamare la tv”. Se siamo sempre noi cittadini a scoprire, denunciare, svelare… cosa servono le istituzioni? Ma la forza delle parole è indebolita non solo dalla mancata corrispondenza col vero nel discorso pubblico – il vero malato di questi anni – ma anche per l’innocua ipertrofia del discorso privato. Paradossalmente credo che la libera circolazione dei saperi sul web abbia depotenziato le parole, perché una lavagna infinita dove scrivere qual che si vuole quando si vuole non produce sapere. Ora che tutti abbiamo un muro e una vernice spray nel pc portatile, che ne facciamo? 

Chimica della trasformazione
 Le parole su cui vale la pena concentrare gli sforzi sono forse quelle che hanno forza trasformativa. Per me la questione oggi è come innescare meccanismi di trasformazione della realtà. Per esempio, mi è chiaro che occorre rompere l’incantesimo dello scenario di crisi, che è ricattatorio quanto quello magico del paradiso in terra, professato fino a prima. Tutto oggi è ancora raccontato in modo incombente, secondo rapporti di scala che non lasciano margini per azioni possibili: le parole della crisi creano pubblico e non attori, costruiscono sceneggiature dove le parti a disposizione sono quelle di chi attende, teme, si lamenta, diffida. È chiaro che quelle parole ingessano e congelano, fanno il gioco di chi le diffonde: sono efficaci, ma nel senso che immobilizzano una reazione civile. I ragazzi e non solo loro stanno scrivendo, tantissimo, solo che tutto questo avviene su display, quasi sempre senza la responsabilità di un discorso pubblico, ovvero senza assumersi la responsabilità delle parole, preferendola la confidenza, lo sfogo, l’evasione. Scrivere una lettera di protesta al sindaco, scrivere una “lettera alla professoressa”, redigere un manifesto di intenti, stendere lo statuto di un’associazione che combatte una causa, preparare un gruppo di ragazzi a sostenere un’intervista con un ministro…: sono esempi di pratiche di parole su cui vale la pena misurarsi, per cercare oggi dove avviene quella chimica della trasformazione. Se voglio consegnare il mio tesoro alla generazione che avviene, l’aiuto a dire con forza ed efficacia come le cose dovrebbero andare per dare a tutti cittadinanza.

 Dalle parole alle immagini
 Prima di scrivere e fare ricerche organizzavo in modo volontario rassegne di film, a Milano: orfano a mia volta di cineclub che chiudevano, volevo regalare insieme ad amici e compagni di viaggio altrettanto ai più giovani, secondo un concetto di “militanza culturale” che è impossibile spiegare anche ad un under 30. In circa 15 anni di attività, terminata verso l’anno 2000, abbiamo visto moltiplicarsi le tessere, a parità di spettatori per sera. Che cosa stava succedendo? Non c’era più il pubblico, c’erano i pubblici. Ogni rassegna, ogni film differenziava il proprio pubblico, ogni pubblico era diverso. Quello che era stato per noi – cresciuti al calduccio di un cineclub – un rapporto di fiducia e formazione in un luogo, era cambiato completamente: quello non era più un luogo di formazione, tu andavi a vedere solo ciò che conoscevi. Ho vissuto l’insorgere di una logica di consumo culturale, contro l’idea di un luogo di formazione, era l’esordio della segmentazione del target, oggi prevalente. Ciascuna ha il suo oggetto, il suo film, il suo libro e così via. Questo comporta la possibilità di mostrare cose ricercate e sofisticate che appartengono a nicchie, in grado di disporre di canali propri per accedere al proprio filone di consumo. Ma contemporaneamente questo implica l’abdicazione della programmazione culturale alla logica del target. Nella vulgata commerciale e di senso comune disponiamo oggi del paradiso in terra – “a ciascuno il suo” – ma con un po’ di lucidità ci rendiamo conto che il profilare prodotti e programma per target è regressivo, impedisce alle persone di evolvere incontrando l’inatteso, ciò che spiazza anziché confermare. Ognuno cerca ciò che conosce e ha già sperimentato, ma senza esposizione ad altro le cerchie di preferenze si restringono, ognuno si riconferma e cerca la comunità di appartenenza, la cultura produce isole di fan e non spettatori curiosi o appassionati sperimentatori.

 Self made
 L’altra dato eclatante di questi anni è la mutazione del rapporto con le immagini. Lo slogan “a ciascuno il suo” si è spinto fino all’autoproduzione, alla stagione della creatività di massa. Oggi in prima media quasi tutti i ragazzi hanno in dotazione uno smartphone con cui possono girare film, montarli, inserire effetti speciali, dal telefono stesso, e proiettarlo nella più grande sala cinematografica del mondo, youtube. Non sembra tanto la celebre “morte dell’autore” per estinzione dell’aura, ma un omicidio collettivo grazie all’autorialità di massa: il pubblico che si fa il suo cinema è qualcosa di potente dal punto di vista dell’immaginario, e forse non è che un’evoluzione della segmentazione per target, in cui ora l’aggettivo possessivo “mio” indica non tanto il film che vedi ma quello che fai. Più che della creatività – e tanto meno dell’arte – questa è l’epoca della dell’espressività, dell’autorappresentazione, il digitale ha dato in mano a tutti questa occasione. Si può essere molto perplessi sull’inflazione di immagini inutili, brutte e malfatte in circolazione sul web e messe sullo stesso piano delle altre – l’unico criterio di autorialità in internet è l’algoritmo di google, il palinsesto lo fa la prima pagina del motore di ricerca – ma dal punto di vista della ricerca questa è una novità potentissima, perché esiste una sorta di sequenza forte nella scelta di cosa metti in scena: prima te, poi i tuoi amici, le tue cose e poi – qui sta il passaggio forte, il salto – una storia. Ma prima ci sei tu e i ci sono i tuoi amici, le tue cose, e la possibilità dell’autorappresentazione è stata una trappola formidabile per i narcisismi, le frustrazioni, gli esibizionismi, i protagonismi vari di cui siamo ampiamente malati, se solo ci si presenta l’occasione.

 Che fare
 L’abbattimento di barriere all’acquisto e all’autoproduzione di immagini ha comportato l’appropriazione individuale e solitaria di un altro segmento prima condiviso, la formazione, divenuta sistematicamente fra i ragazzi autoformazione o sperimentazione fra pari: in questo mondo orfano di adulti, non solo non vai da qualcuno a chiedere una telecamera o una sala di montaggio, non senti il bisogno di cercare un interlocutore adulto o esperto per imparare, ma ti formi da solo provando a utilizzare quanto hai in mano e usando i canali educational e tutorial sul web per guardare pillole di istruzioni. Come ogni novità anche questa ha risvolti ambigui, può generare straordinari autodidatti e può legittimare la nostra stupidità che non incontra più un filtro critico: i video più visti su youtube sono sconfortanti. Sul web si possono trovare interviste a Pasolini un tempo inaccessibili ma anche le peggiori nefandezze (in questo momento il video più cliccato risulta “scoregge della gente”): è uno straordinario archivio, ma come ogni campo libero si espone a quello che una volta era il cinema di alvaro vitali, semplicemente trapiantato lì e per di più senza nemmeno la fatica di una storia, con la sola “scena madre” che tutti cercano. Per chi come me è cresciuto nei cineclub e ha provato a dare la stessa opportunità agli altri è un cambiamento epocale. Ma se provo a riprendere quella vis pedagogica, mi viene da notare due cose. Prima di tutto, chiedersi quando e come si passa dalle immagini di sé moltiplicate per quante ce ne stanno nella memoria del telefono, al desiderio di costruire una storia, cioè di raccontare. Se è legittimo e normale avere uno specchio, per me è più interessante esplorare quella soglia, capire cosa dà il clic. Secondo aspetto: più che i soldi o le tecnologie credo contino nell’epoca dell’espressività di massa le esperienze di vita. Alla fine quel mezzo in mano tua regala immagini preziose se hai una vita che ha senso, una vita che fa attrito col mondo, se hai un’urgenza di racconto. Come a dire che se ci fosse una scuola di cinema sensata ragionerebbe sulle vite dei ragazzi che hanno di fronte, sul promuovere viaggi esperienziali e incontri significativi. Infine credo sia importante – se penso agli adulti – favorire i momenti riflessivi, in cui ragioni su quello che stai facendo, ed esporre ad un’estetica, ad un immaginario e a un cinema che si possa considerare tale. La democrazia delle immagini non è formativa, la lavagna di massa non porta a selezionare il messaggio, aiutare la formazione del gusto non per target di consumo è un contromovimento importante da agire.

di Stefano Laffi
uscito su Gli asini n15

#direngeziparkı