venerdì 28 novembre 2014

frammenti


sabato 22 novembre 2014

Terremoto


ci sono giovani donne
che dopo aver fatto un figlio
hanno paura di essere madri
e vanno in casa della madre
dove diventano figlie
e il bambino
per la nonna è un figlio
per la madre una bambola
a meno che non abbiano una balia
o una vecchia cameriera di famiglia.
Se c'è il marito
non possono andare dalla madre
anche se lo vorrebbero tanto
e devono fingere
che il bambino è un bambino
che non è una bambola
Tua madre
allora è la madre di tuo figlio
e tu diventi madre
solo quanto ti accorgi
che fai patire a tuo figlio
quanto patisti da tua madre
Che lo ho avuto a fare
ti chiedi
se tutto si ripete eguale?
Così ti accorgi del corpo
quando ti fa male
Ma la ripetizione

è il peggior male

sabato 15 novembre 2014

mystery [hands]


third

Porta in una notte come questa, dispiacere,
recare a voi disturbo, in fondo all'occhio, al cuore,
sia che lo spettro che v'arriva è pura fiamma,
sia che provenga solo da una debole scintilla.
Una delle prime sorprese della vita, a ritornarci,
consiste nel sentirsi costretti a spiegazione, di continuo.

Eccoci qua, a 'nfettarce 'a stessa freva, sonnolenta, contenta
azzeccate sott' a pelle, quasi comm' 'e vene
capillari.

Io ve parlo, ve tocco, che bellizze, che sollievo!
O' tengo ancora astipato nu ricordo e stu sollievo
Ero n'acqua na vota, sapite? Che pigliava forme

O' vveco, pure vuie tenite l'uocchie chiuse
Comme a duie malate, ca s'alleccano a freva, stamme stis'
int' 'a lentezza
nell'arresto do Tiempo.

Porta in una notte come questa, dispiacere
insistere a restare in una forma
Ci sfiliamo, adesso, fianco a fianco
'e lato a vvuie
o preferiamo darci spalle ad angolo
o 'nzieme a nu lato solamente
caricatura oscena
di parziali e squilibrati desideri, imperfezioni.
Ci strusciamo cu 'e parole ca ce simme ditte
ca ce simme sciusciate
a risucchio, senza emettere rumore
muvenne 'a vocca, in pantomima
comme fanno 'e pisce.

mercoledì 12 novembre 2014



Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo
Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna bruciata nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere
Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto

Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.

giovedì 6 novembre 2014

Non sono i bambini che lei viene a salvare

Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.

In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia. Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente; chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza.
Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo piú grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella.

Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo piú posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi mori le piú grandi battaglie. Cominciammo a recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.

Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria:
- Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia. -
Non so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il pri¬mo dei suoi figli. Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.

Gli uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti buttarmi a una mezza corsa. Mi sentí, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi piú sotto, mi ripeté di tornarmene su ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli piú grandi, quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa .
Mi spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentí al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbatté tre passi su.
Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero piú sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lí intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: “Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa”, ma non vedevo una testa d’uomo, in tutta la conca.

Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e sopratutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.

Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lí, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.
Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.