giovedì 30 giugno 2011

Compagni, camerati,
- mi spetterebbe - ha detto Majakovskij -
un monumento da vivo! -
Son'io quel desso che non vi spiegate
ancora ieri poi stanotte o mai
sono quel tu generico, la statua
d'un centravanti dell'azzurro in corsa
con la testa tra i piedi senza palla
Cento all'ora del campo,
sono l'affanno che si disamora
trovando tondo tondo nella rete
nient'affatto avversaria
un mondo già segnato da nessuno
altro che me quando non ero nato.
Ed ecco fatto quello che non faccio
ed ecco detto quello che dicevo
ecco premiato quello che volevo
esatto a dirmi che non sono esatto
Eccomi morto quando più vivevo -
Tattica - mi rispondono le stelle -
tu non sai stare al gioco della corsa -
- Oh, risultare! - Torna, ma stanotte,
se vuoi tornare, dopo la partita,
ché bianca verde rossa oltre Montale
è finita lo sai perché finita
dentro un solo comune meriggiare
è l'eccezione che credevi tale:
occasione di folla sminuita
il tuo tardo arrivare
rimette in palio il palio d'una vita
vinta quell'altra notte in fondo al mare
E la speranza è tanta
che non mi basta più
ma tale che m'avanza musicale
la vita.

da L'orecchino mancante - Carmelo Bene 1970 - Lettera al PCI

lunedì 27 giugno 2011

verso un approccio a un Basile ipoteticamente metropolitano

LA GATTA CENERENTOLA

Prefazione Roberto De Simone
( anno 1976 )

Quando cominciai a pensare alla Gatta Cenerentola
pensai spontaneamente ad un melodramma:
un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo
come nuove e antiche sono le favole
nel momento in cui si raccontano.
Un melodramma come favola
dove si canta per parlare e si parla per cantare
o come favola di un melodramma dove tutti capiscono
anche ciò che non si capisce solo a parole.
E allora quali parole
da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole
magari senza parole?
Quelle di un modo di parlare
diverso da quello usato per vendere carne in scatola
e perciò quelle di un mondo diverso
dove tutte le lingue sono una
e le parole e le frasi sono le esperienze di una storia
di paure, di amore e di odio, di violenze
fatte e subite allo stesso modo da tutti.
Quelle di un altro modo di parlare,
non con la grammatica e il vocabolario,
ma con gli oggetti dei lavoro di tutti i giorni,
con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni
così come nascere, fare l'amore, morire,
nel senso di una gioia, di una paura,
di una maledizione, di una fatica o di un gioco
come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno.
E queste parole
erano quelle imparate dalla gente che ancora sa parlare
perché chiama festa un giorno
in cui si dice la verità e tutti la capiscono
e chiama gioco la fatica di avere paura per non avere paura.
E queste parole dai cento occhi
affollavano i dialoghi di questa favola
con una storia scritta perfettamente senza essere scritta.
E queste parole erano sempre le stesse
ed erano una grotta dove una vergine perde una scarpa
ed erano la cenere del focolare
e una pianta fatata come il dattero e il basilico
ed erano sei sorelle come sei Madonne
ed erano una gatta come donna
o una donna come gatta
ed erano ancora un giorno di festa al palazzo del re
o in una chiesa dorata
e una carrozza con dodici paggi
quanti sono i mesi di un anno
oppure quante sono le ore di un giorno o di una notte.
E a capo di tutto c'è la madre di tutto e di tutti:
quella madre che aveva partorito tutto
ed era sempre in procinto di partorire,
anche la morte.
Quella madre dai fianchi capaci di reggere dodici figli
come le Matute di Capua
o dal viso largo e le natiche piene
come la Madonna di Castello.
Una madre cattiva come la madre di Cenerentola
o come quella Madonna
che fa cadere i piedi a chi la bestemmia.
Quella madre buona e cattiva nello stesso tempo
a seconda che la si ami o la si odi
o a seconda che ci ami e ci abbia odiato.
Infine, dietro queste parole,
la paura di morire come di fare l'amore,
fare l'amore come morire
ma invece vivere per fare l'amore
anche se è proibito
e poi morire ancora
perché c'è sempre una grotta
e la vergine che perde una scarpa
e la cenere e la pianta e le sei sorelle
e la madre e la matrigna e la Madonna
e tante madonne e un padre cattivo
che si sposa sempre per darci una matrigna
o magari sposerebbe anche la figlia
perché è lui che comanda o crede di comandare
finché Cenerentola o una Madonna
non diventa gatta
e gli graffia il viso fino a farlo tremare
dalla paura di essere divorato come un topo.
Allora egli dopo avere inventato la sua verginità,
dopo aver mozzato il capo ai figli morti prima di nascere
inventa una chiesa
dove è l'unico dio che non può morire
perché ha creato tutto lui.
Ma intanto si accorge che non può partorire
e allora la gatta gli ride dietro
e si siede come la regina al suo posto
calzando la scarpa perduta come vuole lui
ma fregandosene altamente perfino della Santa Inquisizione.
Ripensando a quei tempi come ad oggi
ecco un incontro col cavaliere di queste stesse parole:
fu così che diventai il cavaliere Gianbattista Basile
e imparai che la matrigna la si può decapitare
troncandole la testa in una cassa da biancheria.
In ciò il cavaliere Basile aveva ragione:
basta sapere usare le parole
per esprimere lo stesso gesto:
solo così si ammazzano tutte le matrigne del mondo
e tutti lo capiscono
e alla fine sono contenti e felici.
Ora io ho parlato usando le parole più semplici
che sembrano difficili solo a chi non sa più parlare
ed è anche per questo che ho usato quelle frasi
ripetute da secoli in un teatro dove ci si può capire
perché ieri e domani
abbiamo parlato una lingua che sappiamo benissimo
e credevamo di avere dimenticato
solo perché era nel trovarobato del teatro.
Ed era nel trovarobato non perché non servisse più
ma perché il padrone del teatro
da quando il cinema è diventato sonoro
ha fatto diventare muto il teatro.
Non che in teatro non si parli ché anzi si parla e si parla,
ma si parla tanto tranne che per dire
"sipario" o "quinte" o infine "teatro".
E queste cose
a dispetto di quelli che hanno paura di avere paura
io le dico anche perché le so suonare e le so cantare
ma potrei anche dirle freddamente
come piacerebbe ai rappresentanti di juke box
o a quelli che ripetono le sole parole delle canzoni
senza conoscere i motivi.
A quattr'occhi chissà,
potrei anche essere tentato di fare una bella figura con loro
recitando il credo per sette ore e mezza
ma in teatro preferisco sentire o ripetere:
"Chi è di scena?"

sabato 25 giugno 2011


t'arricuorde, sta fata sì tu

mercoledì 22 giugno 2011


qui l'arte vien meno.

on n'échappe pas de la machine. [per una lettura di kafka]

lunedì 20 giugno 2011

I ricci d'uomo;
le ciglia che un'anima, dentro, nascondono viva.
la pelle tenera e le pieghe dell'abito nel grembo
tutte cose che vedevo da bambino.
e adesso mi alitano nella carne pallida
non solo l'amore ma le memorie;
e tutta la vita, la morte, sento nel tuo corpo
nato per caso.
Il sangue tuo, il riso tuo, gioiscono in quel volto,
in quei fianchi di fiori, in quel grembo appena fiorito,
con l'età più bella,
e che mi incanta.

venerdì 17 giugno 2011

piensace tu
Chesta fiamma a prora 'o vuzzo
sciulia lenta 'ncopp 'a ll'acqua
mentre 'e lato 'o mare sciacqua
quanno 'o rimmo sta affunnà!

Sotto 'a prora 'o verde chiaro
luce 'a rena, l'erba e scuoglio
vide o purpo o' lanze 'o cuoglie
perchè si sicuro d'appezzà!

Mare turchino
che vuò è destino
nu piscatore t'adda benedì
nun c'è sta mare e te cchiù cristallino
cchiù trasparente e limpido accussì

Tutte e tirate e rezza e sta marina
se fanno sempre 'n terra a Margellina
addò pe pisce abbonda ogni paranza
tu si chiammato 'o mare e ll'abbondanza

pure li pisce, tanto d'a priezza,
mieze stunate cadeno int a rezza
e po piacere e ce putè venì
corrono a Margellina pe murì!

O Vesuvio se ntravede
p'ascensore illuminata
ogni tanto na vampata
pe ce dicere: IO StO CCA'

Mare turchino che vuò è destino
nu nnammurato t'adda benedì
st'ammore mio durmeva a suonno chino
mo s'è scetato perchè ha ritt': si!
tutte e figliole belle e sta marina
vanno a fa ammore abbascio Margellina
e assieme e pisce, tanto da priezza
pure e figliole cadono int a rezza

o' sanno e pisce, comme o sanno loro,
ca a Margellina o mare è traditore
è troppo bello pe pute fuggì
è o meglio pizzo e munno pe murì

Incomprensione


Ho detto "incomprensione", e solo adesso la vita m'ha insegnato che nient'altro ci serena nell'adulto travaglio sia o no artistico, sia o no "pensoso" - non gli accordi d'amore, non le prove rare dell'amicizia, non le attenzioni che puntualmente bistrattiamo; non gli assensi e le cure del "reciproco", le "intese", eternamente disilluse - nient'altro a questo mondo ci è conforto quanto l'incomprensione, patetica, un po' goffa, di chi ci vive accanto. Assidua.
Come potremmo altrimenti sopravvivere a più lustri d'amore "costante", alle stagioni alterne degli umori cangianti nei decenni d'una sola giornata, ai litigi, alle tregue, al maquillage nevrotico, all'andare e venire nella stanza del tempo lento e breve della pur temperata intollerabile tolleranza; se lei, l'incomprensione, mai invocata, non vegliasse con noi e su noi. Che sarebbe dei nostri progetti, se, subito "compresi" dal prossimo nostro, venissero esauditi, realizzati prima d'essere stati intrapresi? Che ne sarebbe della nostra vita, se già vissuta.

mercoledì 15 giugno 2011

lascialo stare il mio circolo vizioso.

Comm'è bella 'a muntagna stanotte...
bella accussí, nun ll'aggio vista maje!
N'ánema pare, rassignata e stanca,
sott''a cuperta 'e chesta luna janca...
Tu ca nun chiagne e chiágnere mme faje,
tu, stanotte, addó staje?
Voglio a te!
Voglio a te!
Chist'uocchie te vonno,
n'ata vota, vedé!

Comm'è calma 'a muntagna stanotte...
cchiù calma 'e mo, nun ll'aggio vista maje!
E tutto dorme, tutto dorme o more,
e i' sulo veglio, pecché veglia Ammore...

Tu ca nun chiagne e chiágnere mme faje,
tu, stanotte, addó staje?
Voglio a te!
Voglio a te!
Chist'uocchie te vonno,
n'ata vota, vedé!...

martedì 14 giugno 2011

aritmia.

lunedì 13 giugno 2011

METEMPSICOSI


[foto Marco Pedicini]

sabato 11 giugno 2011

Questo è Franz Kafka.


Si abbracciarono, quel piccolo corpo bruciava nelle mani di K.; in un oblìo di sé dal quale K. tentava di sottrarsi continuamente ma invano, rotolarono alcuni passi più in là, urtarono con un rumore sordo contro la porta, poi si ritrovarono distesi fra pozze di birra e altro sudiciume di cui il pavimento era coperto. Passarono così delle ore, ore di respiri mescolati, di cuori che battevano insieme, ore durante le quali K. aveva la sensazione costante di smarrirsi o di essersi inoltrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui, in un paese dove l'aria stessa non aveva un solo elemento in comune con l'aria del paese natale, dove il sentimento di estraneità toglieva il respiro e tuttavia non si poteva far altro, in mezzo a quelle seduzioni insensate, che andare avanti e smarrirsi ancor di più.

mercoledì 8 giugno 2011



Piccole variazioni di luce a Dogville


questo essere privi di consapevolezza finisce per essere il solo modo per avvicinarsi all'assoluto, mentre ogni ricerca consapevole ce ne allontana. La verità è indivisibile, quindi non può conoscere se stessa; chi vuole conoscerla deve essere menzogna. Si può essere in paradiso senza saperlo, anzi non saperlo è la condizione indispensabile per essere in paradiso. Castello e villaggio sono forse la stessa cosa, purchè tuttavia non cada mai su di essi la luce disgregatrice della conoscenza.

[frammento dall'introduzione a "Il Castello" di Franz Kafka]

martedì 7 giugno 2011

domenica 5 giugno 2011

Dei nostri incontri
ogni istante festeggiavamo
come un'epifania,
soli nell'universo tutto.
Più ardita e lieve d'un battito d'ali
per le scale correvi
come un capogiro,
precedendomi tra cortine di umido lillà
nel tuo regno dall'altra parte dello specchio.
Quando la notte venne
ebbi da te la grazia.
Si spalancarono le porte dell'altare
e le tenebre illuminò,
chinandosi lenta, la tua nudità.
E io, destandomi, "sii benedetta", dissi,
pur sapendo che oltraggio era
la mia benedizione.
Tu dormivi,
e a sfiorarti le palpebre col suo violetto
a te tendeva, dal tavolo, il lillà.
E le tue palpebre sfiorate di violetto
erano quiete, e calda la tua mano.
E nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumavano le montagne, luceva il mare.
E tu tenevi in mano la sfera di cristallo,
e tu in trono dormivi,
e, Dio ! ,
tu eri mia.
Poi ti destasti,
e trasfigurando il quotidiano vocabolario umano
a piena voce pronunciasti
" Tu ! "
E la parola svelò il suo vero significato,
e zar divenne.
Nel mondo tutto fu trasfigurato,
anche le cose semplici,
- il catino, la brocca, l'acqua
che sta fra noi come una sentinella,
inerte e dura.
Chissà dove fummo spinti...
Dinanzi a noi si stesero, come miraggi,
città nate da un prodigio.
La mente sola si stendeva
sotto i nostri piedi,
e gli uccelli c'eran compagni di viaggio,
e i pesci balzavano dal fiume,
e il cielo si spalancava ai nostri occhi
quando il destino seguiva i nostri passi
come un pazzo con il rasoio in mano.

giovedì 2 giugno 2011

Sandro Pertini.

mercoledì 1 giugno 2011

On n'échappe pas de la machine.
voglio essere poeta, e lavoro a rendermi veggente: lei non capirà affatto, e io non sono quasi in grado di spiegarle. Si tratta di arrivare all'ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è affatto colpa mia. E' falso dire: io penso, si dovrebbe dire mi si pensa - scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto peggio per il legno che si ritrova violino..
[dalla lettera di Arthur Rimbaud a Georges Izambard_13 maggio 1971]