lunedì 18 maggio 2020

Più non mi temono i passeri. Vanno
vengono alla finestra indifferenti
al mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano il miglio e la scagliuola: dono
spanto da un prodigo affine, accresciuto
dalla mia mano. Ed io li guardo muto
(per tema non si pentano) e mi pare
(vero o illusione non importa) leggere
nei neri occhietti, se coi miei s'incontrano,
quasi una gratitudine.
Fanciullo,
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e più se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto, molto errato,
che ancora esiste la Grazia, e che il mondo
TUTTO IL MONDO - ha bisogno d'amicizia.

venerdì 15 maggio 2020


Ammettiamolo: la maggior parte delle email scambiate nelle ultime settimane avevano come primo obiettivo di verificare che l’interlocutore non fosse morto, né sul punto di esserlo. Ma, compiuta questa verifica, cercavamo comunque di dire cose interessanti, cosa non facile, perché questa epidemia riusciva nell’impresa di essere allo stesso tempo angosciante e noiosa. Un virus banale, apparentato in modo poco prestigioso a oscuri virus influenzali, dalle possibilità di sopravvivenza poco note e caratteristiche confuse, a volte benigno a volte mortale, neanche trasmissibile per via sessuale: insomma, un virus senza qualità. Questa epidemia poteva anche fare qualche migliaio di morti tutti i giorni nel mondo, produceva comunque la curiosa impressione di essere un non-evento. Del resto, miei stimabili colleghi (alcuni sono pur sempre stimabili) non ne parlavano granché, preferivano affrontare la questione del confinamento; e vorrei qui aggiungere il mio contributo ad alcune delle loro osservazioni.

Frédéric Beigbeder (di Guéthary, Pyrénées Atlantiques). Uno scrittore in ogni caso non vede molta gente, vive da eremita con i suoi libri, il confinamento non cambia granché le cose. Sono d’accordo, Frédéric, quanto alla vita sociale non cambia quasi nulla. Solo, c’è un punto che dimentichi di considerare (senza dubbio perché, vivendo in campagna, sei meno vittima dei divieti): uno scrittore ha bisogno di camminare. Questa quarantena mi pare l’occasione ideale per chiudere una vecchia querelle Flaubert-Nietzsche. Da qualche parte (non ricordo dove), Flaubert afferma che non si pensa e non si scrive bene se non seduti. Proteste e ironie di Nietzsche (anche qui non ricordo dove), che arriva a dare a Flaubert del nichilista (quindi siamo all’epoca in cui Nietzsche aveva già cominciato a usare il termine a vanvera): lui stesso ha concepito tutte le sue opere camminando, quel che non è concepito camminando non ha alcun valore, del resto è sempre stato un danzatore dionisiaco, eccetera. Poco sospettabile di simpatia esagerata per Nietzsche, devo tuttavia riconoscere che in questo caso è piuttosto lui ad avere ragione. Mettersi a scrivere se nell’arco della giornata non ci si può dedicare a molte ore di marcia a ritmo sostenuto è da sconsigliarsi fortemente: la tensione nervosa accumulata non arriva a sciogliersi, i pensieri e le immagini continuano a vorticare dolorosamente nella povera testa dell’autore, che diventa rapidamente irritabile, o pazzo. La sola cosa che conta davvero è il ritmo meccanico della marcia, che non ha per ragion d’essere principale quella di fare emergere idee nuove (benché questo possa accadere, in un secondo tempo) ma di calmare i conflitti indotti dallo choc delle idee nate al tavolo di lavoro (ed è qui che Flaubert non ha del tutto torto); quando ci parla dei suoi concetti elaborati sui pendii rocciosi dell’entroterra nizzardo, nei prati dell’Engadina eccetera, Nietzsche divaga un po’: a meno che non si debba scrivere una guida turistica, i paesaggi attraversati hanno meno importanza del paesaggio interiore.

Catherine Millet (normalmente piuttosto parigina, ma che si è trovata per caso a Estagel, Pirenei orientali, quando è arrivato l’ordine di non muoversi). La situazione attuale le ricorda dolorosamente la parte «anticipazione» di uno dei miei libri, «La possibilità di un’isola». Lì mi son detto che era bello, comunque, avere dei lettori. Perché a me il collegamento non era venuto in mente, mentre è assolutamente limpido. Se ci ripenso, è proprio quel che avevo in mente all’epoca, riguardo all’estinzione dell’umanità. Niente che assomigliasse a un film spettacolare. Qualcosa di abbastanza mesto. Individui che vivono isolati nei loro cubicoli, senza contatto fisico con i loro simili, giusto qualche scambio via computer, via via meno frequente.

Emmanuel Carrère (Paris-Royan; sembra avere trovato un motivo valido per spostarsi). Nasceranno libri interessanti, ispirati da questo periodo? Se lo domanda. Me lo chiedo anche io. Mi sono davvero posto la questione, ma in fondo credo di no. Sulla peste abbiamo avuto molte cose, nel corso dei secoli, la peste ha interessato molto gli scrittori. Nel nostro caso invece ho qualche dubbio. Intanto, non credo mezzo secondo alle dichiarazioni del tipo «niente sarà più come prima». Al contrario, tutto resterà esattamente uguale. Lo svolgimento di questa epidemia è anzi notevolmente normale. L’Occidente non è, per l’eternità, per diritto divino, la zona più ricca e sviluppata del mondo; è finito, tutto questo, già da qualche tempo, non è certo uno scoop. Se andiamo a vedere nel dettaglio, la Francia se la cava un po’ meglio che la Spagna o l’Italia, ma meno bene che la Germania; anche qui, nessuna grossa sorpresa. Il coronavirus, al contrario, dovrebbe avere per risultato principale quello di accelerare certi mutamenti in corso. Da qualche anno ormai l’insieme delle evoluzioni tecnologiche, che siano minori (video on demand, pagamento senza contatto) o maggiori (il telelavoro, gli acquisti su Internet, i social media) hanno avuto per conseguenza principale (principale obiettivo?) quella di diminuire i contatti materiali, e soprattutto umani.

L’epidemia di coronavirus offre una magnifica ragion d’essere a questa tendenza di fondo: una certa obsolescenza che sembra colpire le relazioni umane. Cosa che mi fa pensare a un luminoso paragone che ho trovato in un testo contro la procreazione medicalmente assistita scritto da un gruppo di attivisti chiamati «gli scimpanzé del futuro» (li ho scoperti su Internet; mai detto che Internet presentasse solo inconvenienti). Dunque, li cito: «Presto, fare bambini da soli, gratis e lasciando margine al caso, sembrerà incongruo tanto quanto fare l’autostop senza una piattaforma web». Il car-pooling, la condivisione delle case: abbiamo le utopie che meritiamo, ma lasciamo perdere. Sarebbe altrettanto falso affermare che abbiamo riscoperto il tragico, la morte, la finitezza, etc. La tendenza ormai da oltre mezzo secolo, ben descritta da Philippe Airès, è di dissimulare la morte, per quanto possibile; ed ecco, mai la morte è stata tanto discreta come in queste settimane. La gente muore in solitudine nelle stanze di ospedale o delle case di riposo, viene seppellita immediatamente (o incenerita? La cremazione è più nello spirito del tempo), senza invitare nessuno, in segreto.

Morte senza che se ne abbia la minima testimonianza, le vittime si riducono a una unità nella statistica delle morti quotidiane, e l’angoscia che si diffonde nella popolazione mano a mano che il totale aumenta ha qualcosa di stranamente astratto. Un’altra cifra ha acquisito molta importanza in queste settimane, quella dell’età dei malati. Fino a quando vanno rianimati e curati? 70, 75, 80 anni? Dipende, a quanto sembra, dalla regione del mondo in cui viviamo; ma in ogni caso mai prima d’ora avevamo espresso con una sfrontatezza così tranquilla il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore; che a partire da una certa età (70, 75, 80 anni?), è un po’ come se si fosse già morti. Tutte queste tendenze, l’ho detto, esistevano già prima del coronavirus; non hanno fatto che manifestarsi con una nuova evidenza. Non ci sveglieremo, dopo il confinamento, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, un po’ peggiore.
Dischiudi gli occhi, schiudili al più presto
sul fittissimo orrore della vita,
prima che un grande nubifragio spazzi
tutto quello che c’è nella tua patria, –
lascia maturare il giusto sdegno,
prepara al lavoro le braccia…
E se non puoi, fa sì che in te si accumuli
e divampi il fastidio e la mestizia…
Ma di questa vita menzognera
cancella l’untuoso rossetto
e, come talpa timida, nasconditi
sotto terra alla luce ed impietrisci,
tutta la vita odiando con ferocia
e tenendo in dispregio questo mondo,
e, anche se tu non veda l’avvenire,
dici no alle cose del presente.

Con quanta faciltà n'ammore po' murì,
A scena è tale e quale a quann'è nata,
Con quanta faciltà n'ammore se ne va
E nun 'o ferma cchiù nemmeno Dio.
E si sta cocc'run a luntan' che guard'
Sta scena rimmane incantato,
Pecchè nun ha capit' manch'isso
Cu quant'emozione ci avimm' lassà.
E ci appicciamm' n'ata sigaretta
Quasi rassignat' senza ci guardà, mentre 'a luna
Pe' dispiett' se ne sta trasenn' ci vò fa vasà.
Comm'è difficile st'ammore inutile, l'avimm'
Programmato troppe vote ma 'o curaggio nun ce stà.
E dopp' n'anno nun ce stà cchiù a forza
Pe affruntà 'e scenate 'e chi ce vò aspettà
E nemmeno dint'all'uocchie
Cu stu mal' tiempo nun ce chiove cchiù.
Si amma cumbattere sempe pe' perdere
Stasera nun è comm'all'ate sere nun ci ammà telefonà.
Sti cori a piezz' già nun l'amma cchiù accuncià
Ormai l'avimm' fatt' troppe vote
Tu vai nun te girà, nun me da rett' cchiù
Aiutam' tu pure a turnà addret'
E m'accatt' chiagnenn' 'e surrise
Se dint'a cucina sta 'a luce appicciata,
Ma se invece già trov' addurmut'
So' assai cchiù cuntent' dint'o scur'a murì.
E ci appicciamm' n'ata sigaretta
Quasi rassignat' senza ci guardà, mentre 'a luna
Pe' dispiett' se ne sta trasenn' ci vò fa vasà.
Comm'è difficile st'ammore inutile, l'avimm'
Programmato troppe vote ma 'o curaggio nun ce stà.
E dopp' n'anno nun ce stà cchiù a forza
Pe affruntà 'e scenate 'e chi ce vò aspettà
E nemmeno dint'all'uocchie
Cu stu mal' tiempo nun ce chiove cchiù.
Si amma cumbattere sempe pe' perdere
Stasera nun è comm'all'ate sere nun ci ammà telefonà
O telefone tocou novamente
Fui atender e não era o meu amor
Será que ela ainda está muito zangada commigo
Que pena há, há, há
Que pena
Que pena há, há, há
Que pena
Pois só ela me entende e me acode
Na queda ou na ascensão
Ela é a paz da minha guerra
Ela é meu estado de espírito
Ela é a minha proteção
Que pena há, há, ha
Que pena
Que pena há, há, ha
Que pena
Com ela eu sou mais eu
Com ela eu sou um anjo
Com ela eu sou criança
Eu sou a paz, Eu sou o amor
E a esperança
O telefone tocou novamente


Citius altius e fortius era un motto giocoso di per sè, era un motto appunto per le Olimpiadi che erano certo competitive, ma erano in qualche modo un gioco. Oggi queste tre parole potrebbero essere assunte bene come quinta essenza della nostra civiltà e della competizione della nostra civiltà: sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti. Questo è un po' il messaggio cardine che oggi ci viene dato. Io vi propongo il contrario, io vi propongo il lentius, profundius e soavius, cioè di capovolgere ognuno di questi termini, più lenti invece che più veloci, più in profondità, invece che più in alto e più dolcemente o più soavemente invece che più forte, con più energia, con più muscoli, insomma più roboanti. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo.