giovedì 30 gennaio 2020

Tutto sopporta tutto e si vorrebbe
cedere, uscire, non essere più.

Ma ancora dieci passi prima della scarpata,
prima del piombo in cuore,
ancora dieci attimi prima della corsa ultima
nella luce del fosforo,
ancora dieci anni per chiedere la pietà.

Ma anche per rivivere e lavorare,
e disperare per rivivere
morire per lavorare,
disperare per morire,
lavorare per rivivere.

Nei tuoi capelli ho accolto odor di vento
sui tuoi ginocchi tu bronzina a te
sui miei ginocchi tu bronzina, quale
lieve bronzina quale
liev’ombra di necessità: te cingendo, che va:
per l’anima tua sciolta
tu sciolta un incanto sereno
così come i sogni che porta
scirocco sul mare Tirreno.

martedì 28 gennaio 2020

Come posso spiegarti, mia gioia, stupenda gioia dorata, quanto posso essere tuo con i miei ricordi, le mie poesie, i miei impeti, i miei vortici interiori? Come posso spiegarti che non posso scrivere una parola senza ascoltare come tu la possa pronunciare; posso solo ricordare le sciocchezze vissute con un rimpianto così acuto per non averlo vissuto insieme a te, anche se il più personale, il più indescrivibile. Non parlo semplicemente di un qualsiasi tramonto dietro l’angolo di una strada. Mi capisci, gioia mia?

Sono pronto a darti tutto il mio sangue, se necessario. È difficile da spiegare. Suona un po’ sciatto, ma è quello che sento. Ti dico che con il mio amore posso affrontare dieci secoli di fiamme, canzoni ed eroismo, dieci secoli interi, immensi e alati; pieni di cavalieri che cavalcano ardenti colline; di leggende sui giganti; della ferocia di Troia; di vele arancioni; di pirati e poeti. E questa non è letteratura, se tu ti mettessi a rileggere con attenzione scopriresti che i cavalieri sono diventati grassi.

A E.

[Torino,] 15 settembre 1932

Sono stato male tutto il giorno a non vederti sulla strada di Crevacuore

E., com’è brutta Torino. E il più triste di tutto questo è che ci dimenticheremo, senza esserci quasi nemmeno conosciuti. Non so quel che tu veda in me, ma io indovino in te un miracolo di femminilità e di tenerezza, che, come si è formato avanti agli occhi a poco a poco in tutta l’estate, così ora colla medesima lentezza andrà svanendomi nelle nostre lettere. E., ho paura che i nostri ultimi giorni di * - li dimenticheremo mai? - siano stati come una crisi, un punto massimo, oltre il quale non andremo.

Questo per ora è un pensiero che mi dispera, ma il giorno in cui mi lascerà indifferente ci pensi, E.? Non è la disperazione, la sofferenza, che ci deve far paura - questo è nulla, è anzi ciò che ci può rendere più meraviglioso un altro incontro - ma il momento che non soffriremo più, che non ce ne importerà più, questo è il terribile.

E pensare che probabilmente noi tra poco dovremo perderci, senza quasi esserci conosciuti, senza sapere di noi più che uno sguardo, un bacio alle dita, qualche carezza.

Che cosa pensi tu, E.? Perché tremi quando sono con te? Cosa c’è dentro ai tuoi occhi quando mi guardi sorridendo e poi ti fai seria, quasi ostile, e poi torni a sorridere? Queste cose le perderò senza averle mai conosciute.

Io d’amore non so piangere E. - piango a sentire un’ingiustizia, una crudeltà, un dolore di bambino - e non posso nemmeno consacrarti delle lacrime per tutto il dono immenso che hai fatto a me in questi giorni. Piangerò forse quando ripenserò - e sarà tardi - al tesoro di quell’amore sprecato così, per uno che non ne vale la pena: tant’è vero che lo lascia ora morire senza nemmeno commuoversi, senza tentare di far nulla per conservarselo, meritarselo.

Ma che altro potremmo fare? È inutile mentire: in amore conta il corpo e il sangue, conta la stretta, la vita, e noi dobbiamo star staccati, dobbiamo avere giudizio, ragionare; mentre la ragione non conta dinanzi alla vita.

Tu sprechi il tuo amore, E. Io non so di volerti bene se non ti sono stretto vicino, e questo temo voglia dire che non ti voglio quel bene che tu desideri.

Ma di una cosa sarò gioioso, se non temessi che tutto fosse per finire con quello: i nostri pomeriggi a * a guardarci negli occhi e carezzarci. Quelli non li dimenticherò mai. Fa, E., che tutto non finisca qui: dammi una probabilità di amarti meglio, di esserti più fedele nei miei pensieri, più degno di te!

Se mi scriverai, devi giurarmi che a Bra staremo sempre insieme senza stancarci.

Ma dove andremo a finire E.? C’è qualcosa di più assurdo dell’amore? Se lo godiamo fino all’ultimo, subito ce ne stanchiamo, disgustiamo; se lo teniamo alto per ricordarlo senza rimorsi, un giorno rimpiangeremo la nostra sciocchezza e viltà di non avere osato. L’amore non chiede che di diventare abitudine, vita in comune, una carne sola di due, e, appena è tale, è morto. A pensarci, si viene matti! È inutile, l’amore è vita e la vita non vuole ragionamenti. Ma possiamo noi lasciarci andare giù così alla disperata? Dove andiamo a finire? Non so trovare parole di conforto per te che valgano, se non ricordarti quel giorno che eravamo stretti insieme, in piedi, e pareva che uno dei due dovesse condurlo a fucilare e invece era tutta gioia. Ricordami quell’attimo, E., se mi scrivi, e dimmi di quando saremo a Bra.

Ti bacio così, come vuoi tu, anche se sei stata cattiva a non venire sulla strada di Crevacuore.

Avevamo cinque anni
Correvamo sui cavalli
Io e lei, contro agli indiani
Eravamo due cow-boy
Bang bang, di colpo lei
Bang bang, lei si voltò
Bang bang, di colpo lei
Bang bang, a terra mi gettò
No, non si può fermare il tempo
Non si può mutare il vento
Quindici anni aveva lei
Ricordo quando mi baciò
Bang bang, di colpo lei
Bang bang, lei si voltò
Bang bang, lei mi baciò
Bang bang, e a terra mi gettò
Sempre al mondo ci sarà
Chi quei colpi sparerà
Sempre al mondo ci sarà
Chi quei colpi sparerà
A vent'anni, all'improvviso
Senza dir perché né dove
Se ne andata, lei mi ha ucciso
Come fosse un colpo al cuor
Bang bang, di colpo lei
Bang bang, lei si voltò
Bang bang, lei se ne andò
Bang bang, a terra mi lasciò

Good morning, heartache, you ole gloomy sight
Good morning, heartache, thought we'd said goodbye last night
I turned and tossed until it seemed you had gone
But here you are with the dawn
Wish I'd forget you
But you're here to stay
It seems I met you
When my love went away
Now everyday I start by saying to you
Good morning, heartache, what's new?

Stop haunting me now
Can't shake you, no how
Just leave me alone
I've got those Monday blues
Straight through Sunday blues

Good morning, heartache, here we go again
Good morning, hearache, you're the one who knew me when
Might as well get used to you hangin around
Good morning, heartache, sit down

mercoledì 22 gennaio 2020

comprò un romanzo: Piccole donne. Si decise a farlo perché lo conosceva già e le era piaciuto moltissimo. La Oliviero, in quarta, aveva dato a noi più brave libri da leggere. A lei era toccato Piccole donne con la seguente frase di accompagnamento: «Questo è per le grandi ma per te va bene», e a me il libro Cuore, senza nemmeno una parola che mi spiegasse di cosa si trattava. Lila si era letta sia Piccole donne che Cuore, in pochissimo tempo, e diceva che non c’era confronto, secondo lei Piccole donne era bellissimo. Io non ero riuscita a leggerlo, a stento avevo finito Cuore entro i termini stabiliti dalla maestra per la restituzione. Ero una lettrice lenta, tuttora sono così. Lila, quando aveva dovuto ridare il libro alla Oliviero, si era rammaricata sia di non poter rileggere di continuo Piccole donne, sia di non poterne parlare con me. Perciò una mattina si decise. Mi chiamò dalla strada, andammo agli stagni, nel posto dove avevamo seppellito dentro una scatoletta di metallo i soldi di don Achille, prendemmo il denaro e andammo a chiedere a Iolanda la cartolaia, che esponeva in vetrina chissà da quando una copia di Piccole donne ingiallita dal sole, se bastava. Bastava. Appena diventammo proprietarie del libro cominciammo a vederci in cortile per leggerlo o a mente, l’una vicina all’altra, o ad alta voce. Ce lo leggemmo per mesi, così tante volte che il libro diventò sudicio, sbrindellato, perse il dorso, cominciò a cacciare fili, a sgangherare i quinterni. Ma era il nostro libro, lo amammo molto. Dicevamo: quando diventeremo ricche faremo questo, faremo quello. A sentirci, pareva che la ricchezza fosse nascosta in qualche posto del rione, dentro forzieri che una volta aperti mandavano bagliori, e aspettasse solo che noi la trovassimo. Poi, non so perché, le cose cambiarono e cominciammo ad associare lo studio ai soldi. Pensammo che studiare molto ci avrebbe fatto scrivere libri e che i libri ci avrebbero rese ricche. La ricchezza era sempre un luccicore di monete d’oro chiuse dentro innumerevoli casse, ma per arrivarci bastava studiare e scrivere un libro. «Ne scriviamo uno insieme» disse Lila una volta e la cosa mi riempì di gioia. Forse l’idea prese piede quando lei scoprì che l’autrice di Piccole donne aveva fatto così tanti soldi che aveva dato un po’ delle sue ricchezze alla famiglia. Ma non ci giurerei. Ne ragionammo, dissi che potevamo cominciare subito dopo l’esame di ammissione. Acconsentì, però non seppe resistere. Mentre io avevo molto da studiare anche per via delle lezioni pomeridiane con Spagnuolo e la maestra, lei era più libera, si mise al lavoro e scrisse un romanzo senza di me.

un giorno tutta questa aritmia ti sarà utile
Che smania, che freva,
'sta giacca, stu segno 'e russetto...
Sultanto na notte,
sapisse che male mm'ha fatto!
Torna, core 'e stu core
pe' n'ata vota ancora
te voglio abbracciá.
Giacca rossa 'e russetto
quanta cose mme faje ricurdá!
Maje na vota mm'ha scritto
giacca rossa 'e russetto addó' sta?
Tutt"e ssere ll'aspetto
cu 'a speranza ca dice: "Stó' ccá!"
Giacca rossa,
tu mme faje chiagnere
senza lacreme
appriesso a te

mercoledì 8 gennaio 2020

Quanti se ne sono andati…
Quanti.
Che cosa resta.
Nemmeno
il soffio.
Nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza.
Tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia.
Come
non lascia traccia il vento
sul marmo dove passa.
Come
non lascia orma l’ombra
sul marciapiede.
Tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi.
Un brusio
di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri.
Foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.

Lampi
fuori nel buio temporale
e lampi
qui nel Teatro Comunale
lampi
sulle signore ingioiellate
e lampi
su legni e trombe lucidate...
Io, che sono qui per rivederti,
io, che sono qui per ritrovarti,
io, che sono qui per adorarti,
io, che non so un tubo di concerti...
Sul dal loggione io ti osservo
bella
che tuo marito ne è superbo...
forse
forse tu vuoi che io ci sia
e aspetti
di avere un lampo di follia...
ma già
le luci sfumano nell'ombra
ecco
ti sei voltata, o almeno sembra...
ma ora
il buio cala e non rimane
altro
che l'incantesimo sublime.

Non pensate mai di essere arrivate alla forma definitiva: c’è sempre almeno ancora una svolta imprevista, sempre. Se c’è un augurio che posso farvi, allora, è di non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione: quasi sempre quella che si presenta come «la vita com’è», secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù), è una truffa. Si può uscire, scartare, fare ancora un giro, magari due, magari di più, e poi sorprendersi di come era facile e possibile quello che sembrava impedito dalla logica ferrea di un mondo che ci mettiamo addosso come una prigione ed è invece solo fantasia, malata fantasia che si spaccia per realtà

Someone to hold you too close
Someone to hurt you too deep
Someone to sit in your chair
And ruin your sleep
And make you aware of being alive
Someone to need you too much
Someone to know you too well
Someone to pull you up short
And put you through hell
And give you support for being alive
Make me alive, make me confused
Mock me with praise, let me be used
Hey Joe, I said
Where you gonna run to now, where you gonna go?
I'm goin' way down south
Way down to Mexico way
Alright
I'm goin' way down South
Way down where I can be free
Ain't no one gonna find me
Ain't no hang-man gonna
He ain't gonna put a rope around me
You better believe it right now
I gotta go now
Hey, Joe
You better run on down
Goodbye everybody

I figli invecchiano. Ma non invecchiano loro. Invecchiano te. I figli ti invecchiano perché passi le giornate curvo su di loro e la colonna prende per buona quella postura; perché parli lentamente affinché capiscano quel che dici e questo finisce per rallentare te; perché ti trasmettono malattie che il loro sistema immunitario sconfigge in pochi giorni e il tuo in settimane; perché ti tolgono il sonno per sempre. Assonnato e curvo, lento, acciaccato, sei nella terza età.
I figli ti invecchiano anche perché quando arrivano al mondo mettono fine, con violenza inaudita, a quella stagione di aperitivi feste e possibilità che ti sembravano il senso stesso della vita. Murato in casa e reso cieco da una congiuntivite, hai un vago ricordo di ciò che eri e di ciò che avresti ancora potuto esprimere, ma non sai più dire con precisione, hai solo molto sonno. I figli si insinuano nella tua mente in modo subdolo e perverso. Se sei con loro, ti soffocano; se non ci sono, ti mancano. Ci è successo di voler scappare dopo troppe ore insieme a loro, e poi trascorrere la serata in un ristorante a guardare le loro foto sul telefonino, straziati da una nostalgia senza senso (li rivedevamo dopo un’ora).
Parlo di figli al plurale perché quando avevamo solo la prima, l’impresa ci sembrava ancora fattibile; Emma era gentile, dormiva, e sebbene l’assetto famigliare fosse nuovo, avevamo ancora l’illusione di essere noi stessi. Il secondo è arrivato come una deflagrazione. Abbiamo concepito Nico durante il tour promozionale di un film; alberghi e ristoranti gratis, autista e ogni genere di comfort, in quel clima di euforia e fiducia nel futuro in cui tutto era spesato (credevamo che sarebbe durato in eterno come gli italiani pensavano del boom economico) all’ennesimo bloody mary abbiamo fatto un figlio. Dopo tre settimane eravamo nel nostro appartamento di Roma, le mani nei capelli, tra le cartelle equitalia, fuori tuoni e fulmini.
Nove mesi dopo, quell’appartamento era un 41 bis. E quand’è così ogni scusa è buona per uscire: si litiga per chi deve fare la spesa o pagare il bollo della macchina, ci si catapulta fuori alla prima citofonata dell’Ama, e la sera ci si affaccia dalla finestra del bagno valutando le possibili conseguenze di un salto nel vuoto. Quando poi finalmente riesci a uscire di casa (la baby-sitter è la tua nuova esaltante, costosa droga) ti rendi conto che il mondo fuori è ormai diverso e non fa più per te; la gente è vitale e allegra, tonica, e crede nel futuro. E tu ti aggiri a Trastevere come un revenant, lo sguardo perso, l’andatura incerta, l’inconfessabile desiderio di voler solo tornare a casa.
Inoltre perdi le tue certezze ideali; provavi una pena infinita per quelli che odiavano i weekend e bramavano il lunedì perché il lavoro li teneva lontani dai figli: ora sei così anche tu. Guardavi con sufficienza quelle case anni ’60 con una zona pensata per la tata: le desideri con tutte le forze e la notte fai sogni catastali. Ti sembrava sconcio che una famiglia viaggiasse con la filippina al seguito: non sogni altro. Sei un conservatore, non ti riconosci allo specchio, e va benissimo così.
I figli poi tirano fuori la tua rabbia, perché devi saper dire NO anche quando non ne hai voglia, o quando quel giorno non hai la struttura emotiva per farlo. Settimane fa abbiamo esortato Emma ad addormentarsi da sola, e quando poi l’ha fatto, in solitudine, bravissima, siamo stati attanagliati da un tale senso di colpa che siamo andati a svegliarla per chiederle come stava e come era andata, cosa ne pensava, e lei ci ha guardato con un senso di confuso disprezzo, girandosi assonnata dall’altra parte. I figli infine ti invecchiano perché sei già vecchio. In paesi dinamici ed evoluti, dove la democrazia non è un concetto così imprendibile come da noi, i genitori hanno 25 anni, sono forti, flessibili, giustamente incoscienti. Quando abbiamo avuto Emma avevo 37 anni, e tra i genitori del nido ero detto “Il giovane”; intorno a me, padri di cinquanta o sessant’anni con lo sguardo spento, la lombalgia e l’alito cimiteriale di chi non dorme da mesi. E avevo comunque l’impressione che molti di loro fossero più in forma di me.
Ma più di tutto, conta ciò che i figli fanno alla tua mente. I figli ti fanno ripiombare, con una forza che neanche l’ipnosi, nel tuo passato più doloroso e remoto: l’odore degli alberi alle otto del mattino prima di entrare a scuola, la simmetrica precisione dell’astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate. Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita stessa, che credevi di aver incasellato in categorie discutibili ma tutto sommato valide, o comunque tue, sfugge via. Sei una piccola parte di un tutto più complesso e i gin-tonic hanno smesso di darti l’illusione dell’eternità. Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande.