giovedì 25 giugno 2009

M.J.

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mercoledì 24 giugno 2009

che sai che non verrà

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E' tempo di disprezzo
E' tempo di compassione
E' tempo di disgusto
E' tempo di rimozione
Di cervelli azzerati
E' tempo di insoddisfatti
E' tempo di pentimenti
E la voglia di vivere in un'Europa inutile
Serpeggia sotterranea e non riaffiora
E non è tempo di assaltare il cielo
Neanche di talpe
Inutili come le spiegazioni
Tempo di miserie tempo di pulsazioni
Tempo di miserie tempo di pulsazioni

Boomerang primitivi tornano incontrollabili
Sgravidano ossessioni sulle città splendenti
Di passate razzie di futuri spettacoli
Di viaggi solitari di percorsi arroganti
Sono finiti male senza proclami senza giubilei
Nelle piccole storie nelle teste pensanti
Nelle vite spezzate ricucite alla cazzo
E non si torna a casa
Si rimane così
Si rimane così
Si rimane così

Magari un po' perplessi
Sui treni fuori orario
Scendendo scale mobili
Aspettando un passaggio


CCCP – BBB. Live in Punkow

martedì 23 giugno 2009

Via Duomo, '43

un giorno racconterò la storia di questa foto...

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lunedì 22 giugno 2009

VOGLIO RIFUGIARMI SOTTO IL PATTO DI VARSAVIA
VOGLIO UN PIANO QUINQUENNALE,
LA STABILITÀ!

domenica 21 giugno 2009

4.12

Ci sono notti nelle quali
io domando di te.
Ci sono notti nelle quali
a me
e a te soltanto chiedo:
ci sei ancora?
Guardo nel buio di me,
di te,
e alla fine mi addormento cullato
dalle prime luci del mattino
Ma è notte.
Senza risposte.
Senza molte domande.
Notte di pensiero triste che si rifiuta,
ma da pensiero triste
si ribella.
Sera di bottiglie, pioggia e paura
cielo al rovescio,
come la tua mano, i tuoi occhi, i tuoi pensieri
nell'intimità,
come i miei sogni.
questo miscuglio pazzo
e senza senso
di sentimenti e finzioni
che non trova ordine,
non trova pace,
non trova visi che non siano il tuo.
Non trova che strada dinanzi a se.
Strada. Ancora strada.

A questo cielo in tempesta che non voglio guardare
A questa notte svenduta.
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venerdì 19 giugno 2009

Le squillo del Club Mensa

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- Quando sei un investigatore privato, devi imparare a seguire il tuo istinto. Ecco perché quando un tremolante panetto di burro di none Word Babcock entrò nel mio ufficio e stese le sue carte sul tavolo, avrei dovuto fidarmi del brivido di freddo che mi era salito lungo la schiena.
“Kaiser?” Disse “Kaiser Lupowitz?”
“Così è scritto sulla mia licenza” confessai
“Deve aiutarmi, mi stanno ricattando, la prego!”
Era agitato come un cantante di un complessino di rumba.
Gli allungai sul tavolo un bicchiere e una bottiglia di whisky che tenevo a portata di mano per scopi non terapeutici.
“Supponga di rilassarsi e di raccontarmi tutto”
“Lei..non lo dirà a mia moglie?”
“Sputi il rospo Word, non prometto niente!”
Tentò di versarsi da bere ma si poteva sentire il tintinnio al di là della strada e la maggior parte del liquido finì sulle sue scarpe.
“Sono una che lavora” disse “manutenzione meccanica. Costruisco e riparo cicalini. Ha presente quegli scherzetti che danno la scossa alla gente quando ti stringono la mano?”
“si, allora?”
“piacciono molto ai funzionari, specie a wall street”
“venga al sodo!”
“viaggio molto. Sa com’è, da solo. Oh non è quello che pensa lei. Vede Kaiser, fondamentalmente sono un intellettuale. Certo un uomo può incontrare tutte le pupe che vuole, ma quelle davvero intelligenti non sono così facili da trovare su due piedi”.
“Continui..”
“Bè vengo a sapere di questa ragazza. Diciotto anni. Studentessa al Vassar. Per una certa cifra viene a discutere di qualsiasi argomento, Proust Yeats o antropologia. Scambio di idee. Capisce dove voglio arrivare?”
“Mhh, non esattamente!”
“Voglio dire mia moglie è fantastica non mi fraintenda. Ma non discuterà mai di Pound con me. O di Eliot. Non lo sapevo quando l’ho sposata.
Vede ho bisogno di una donna che sia mentalmente stimolante, Kaiser. E sono disposto a pagare. Non voglio un legame Voglio una rapida esperienza intellettuale e poi che la ragazza se ne vada. Cristo Kaiserr sono un uomo felicemente sposato!”
“da quanto dura questa storia?”
“Sei mesi. Ogni volta che mi prende quella voglia telefono a Flossie. E’ una maitresse con un master in letteratura comparata e lei mi manda una intellettuale, capisce?”

Così, era uno di quei tipi con un debole per le donne brillanti. Provavo pena per quel povero stupido. Immaginai che ci fossero molti altri stupidi nella sua posizione affamati di un po’ di comunicazione intellettuale con l’altro sesso e disposti a pagare per averla.

“Adesso minaccia di dire tutto a mia moglie!” disse
“Chi?”
“Flossie! Hanno messo le microspie nella stanza del motel. Hanno delle registrazioni dove discuto di “La terra desolata” e “Stili di volontà radicale”..ehm…entrando a fondo negli argomenti.
Vogliono diecimila dollari o vanno da mia moglie! Kaiser deve aiutarmi! Mia moglie morirebbe se sapesse che quassù non mi eccita!”

Il vecchio racket delle ragazze squillo. Avevo sentito dire che i ragazzi del distretto stavano indagando su qualcosa che c’entrava con un gruppo di ragazze colte, ma non avevano prove.

“Mi chiami Flossie a telefono”
“Cosa?”
“Accetto di occuparmi del suo caso. Ma prendo cinquanta dollari al giorno più le spese.”
“sempre meno di diecimila dollari”

Sollevò la cornetta e fece il numero. Presi io la cornetta e parlai. Pochi secondi dopo rispose una voce vellutata e le dissi cosa avevo in mente. “So che può aiutarmi in un ora di buona conversazione…”
“Certo. Cosa le piacerebbe?”
“Vorrei discutere di Melville”
“Moby Dick o romanzi brevi?”
“Qual è la differenza?”
“Il prezzo”
“Quanto vuole?”
“Cinquanta forse cento dollari per Moby Dick. Cento dollari sicuri per una discussione comparata Melville-Hawtorne”
“La cifra va bene” Le diedi il numero di una stanza al Plaza.
“Bionda o mora?”
“A sorpresa” e attaccai.

Mi preparai e ripassai le dispense del Monarch College.
Quando arrivai trovai una rossa che era impachettata nelle sue brachette come due grandi cucchiaiate di gelato a vaniglia.
“Ciao, sono Sherry”

Sapevano davvero come eccitare la tua fantasia. Lunghi capelli lisci, borsa di pelle, orecchini d’argento, niente trucco.
“Cominciamo?” dissi indicandole il divano.
Accese una sigaretta e attaccò. “Penso che potremmo cominciare da Billy Budd come la giustificazione di Melville del comportamento di Dio nei confronti dell’uomo n’est ce pas?
“E non nel senso miltoniano!”…stavo bluffando, volevo vedere se abboccava.
“No. A Paradiso perduto, manca il fondamento di pessimismo”
Aveva abboccato.
“Penso che Melville abbia riaffermato le virtù dell’innocenza in un senso ingenuo eppure sofisticato”
La lasciai continuare. Aveva a malapena diciannove anni ma aveva già sviluppato la navigata naturalezza della pseudointellettuale. Snocciolava le sue idee ma era tutto meccanico.
Parlammo per un ora circa poi disse che doveva andare. Si alzò e le porsi un centone.
“Grazie tesoro”
“Sai nel mio portafoglio ce ne sono altri di centoni..”
“cioè?”…avevo stuzzicato la sua curiosità
“Cioè metti caso che io voglia dare una festa in cui tipo due o tre ragazze mi parlassero di Choamsky?”
“Oh. WOW!”
“Devi parlare con Flossie”
Era arrivato il momento di stringere. Mostrai il mio distintivo da investigatore privato e la informai che era in arresto.
“Cosa?”
“Sono uno sbirro cara, e discutere di Melville a questi prezzi è articolo 802. Potresti finire dentro”
“Bastardo!”
“Vuota il sacco bimba, a meno che tu non voglia raccontare la tua storia in ufficio e non credo che molti vorranno sentire le tue versioni”
Cominciò a piangere. “Non portarmi dentro Kaiser, mi servono i soldi per il master! Non mi hanno dato la borsa di studio, Cristo!”
Venne fuori tutto, origini a Central Park, campeggi estivi socialisti, la vedevi fare le file alle biblioteche o annotare frasi sotto libri di Kant. Solo che poi aveva presto una strada sbagliata.
“Mi servivano soldi e un giorno un amico mi disse che un uomo sposato voleva parlare un po’ perché la moglie non era molto profonda. Lui era un amante di Blake e la moglie non era all’altezza. E accettai per una certa somma. All’inizio fingevo molto ma a loro non importava. Poi mi dissero che ce n’erano altri.
In realtà sono già stata arrestata. Mi beccarono a leggere Commentary in un auto parcheggiata e un altro paio di volte. Alla prossima finisco dentro…”
“Allora portami da Flossie”
“La libreria dello Hunter College fa da copertura”
“Come quei posti da scommesse nei retrobottega dei barbieri”

La lasciai libera ma le dissi di rimanere in città.
Entrai nella libreria dello Hunter College.
Finsi di chiedere dei libri rari, poi dissi “Mi manda Sherry”
Pigiò un bottone e da una parete di libri si aprì quel luogo di piacere che era da Flossie.
Tappezzeria rossa e arredamento vittoriano per creare l’atmosfera.
Pallide ragazze con gli occhiali dalla montatura nera oziavano sui divani sfogliando i classici.
Una bionda mi fa l’occhiolino e sussurrandomi un autore inglese mi fa segno a una stanza al piano superiore…Smerciavano un po’di tutto.
Per cento dollari in più potevi relazionarti un po’ in più senza però avvicinarti troppo.
Per altri cento una ragazza ti prestava i suoi dischi di classica veniva a cena con te e simulava di stare male.
Per il triplo veniva a prenderti un ebrea magra coi capelli neri legati fuori al Museo d’arte, ti faceva leggere la sua tesi, ti coinvolgeva sulle tesi di Freud sulla donna e poi fingeva un suicidio a tua scelta.
Una racket simpatico a New York.
Quando capirono che non ero lì per smerciare mi ritrovai una pistola puntata allo stomaco.
Era Flossie, ma Flossie era un uomo con la maschera.
Con un paio di movimenti lo disarmai e chiamai la polizia.
“Ottimo lavoro Kaiser” disse il sergente.
“Quando abbiamo finito lo passiamo all’FBI, vuole farci una chiacchierata circa delle scommesse clandestine e un edizione critica dell’Inferno di Dante sotto inchiesta….Portatelo via!”

Più tardi quella notte cercai una mia vecchia conoscenza di nome Gloria. Era bionda. Laureata con lode. La differenza era che si era specializzata in educazione fisica. Fu piacevole.


Woody Allen 1975

martedì 16 giugno 2009

Tom, pigliammc' 'sta nuttat' comm' ven'

She sends me blue valentines

all the way from philadelphia

to mark the anniversary

of someone that I used to be

and it feels just like there's

a warrant out for my arrest

got me checkin' in my rearview mirrror

and I'm always on the run

thats why I change my name

and I didn't think you'd ever find me here



to send me blue valentines

like half forgotten dreams

like a pebble in my shoe

as I walk these streets

and the ghost of your memory

is the thistle in the kiss

and the burgler that that can break a roses neck

it's the tattooed broken promise

that I hide beneath my sleeve

and I see you every time I turn my back



she sends me blue valentines

though I try to remain at large

they're insisting that our love

must have a culogy

why do I save all of this madness

in the nightstand drawer

there to haunt upon my shoulders

baby I know

I'd be luckier to walk around everywhere I go

with a blind and broken heart

that sleeps beneath my lapel



she sends me blue valentines

to remind me of my cardinal sin

I can never wash the guilt

or get these bloodstains off my hands

and it takes a lot of whiskey

to make these nightmares go away

and I cut my bleedin' heart out every nite

and I die a little more on each st. valentine day

remember that I promised I would

write you...

these blue valentines

blue valentines

blue valentines



da Blue Valentine – Tom Waits, Asylum Records 1978



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Mio diario inconcluso, è tempo di bruciare.

A questo pianto che non esplode
Mio diario inconcluso, è tempo di bruciare.

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lunedì 15 giugno 2009

Congo - Svezia - Venezuela

ho pensato d'invitarti
al vagabondaggio più dolce.
Prenderti la mano
senza allontanarsi dai sogni.
Prenderti la mano
e scendere per strada.
Che sia essa d'asfalto,
di lenzuola, di poesia
o di ghiaccio.
Prenderti la mano.
E volare. Semplicemente volare.

Manoscritto trovato in una tasca

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Adesso che scrivo, per qualcuno questo poteva essere la roulette o una scommessa di cavalli, ma non era denaro quello che stavo cercando, in qualche momento avevo iniziato a sentire, a decidere che un vetro del finestrino nella metropolitana poteva darmi la risposta, l’incontro con qualche felicità, proprio qui dove ogni cosa succede sotto il segno della più implacabile rottura, in un tempo sottoterra che un percorso tra stazioni disegna e limita così, definitivamente sotto.

Dico rottura per comprendere meglio ( avrei dovuto comprendere tante cose da quando iniziai a giocare il gioco ) quella speranza di una convergenza precisa che magari mi fosse data dal riflesso in un vetro di finestrino. Aumentare la rottura che la gente non sembra se ne sia accorta quando va’ a sapere che cosa pensa questa gente stanca che sale e scende dai vagoni della metro, quello che cerca oltre al trasporto questa gente che sale prima o dopo per scendere dopo o prima, che coincide soltanto in una zona del vagone dove tutto è già deciso in precedenza senza che nessuno possa sapere se usciremo dal treno insieme, se scenderò prima io o quest’uomo magro con un rotolo di fogli al braccio, se la vecchia vestita di verde seguirà fino alla fine, se questi bambini scenderanno adesso, è evidente che scenderanno perché raccolgono i quaderni e le loro cose , si avvicinano ridendo e scherzando alla porta mentre lì nell’angolo c’è una ragazza che si accomoda per durare, per restare ancora molte stazioni sul sedile finalmente libero, e quest’altra ragazza sembra imprevedibile, Ana era imprevedibile, si manteneva dritta contro lo schienale del posto attaccato al finestrino, era già lì quando io salii alla stazione Etienne Marcel e un nero liberò il posto di fronte e a nessuno pareva gli interessasse e io riuscii a scivolare con una scusa vaga tra le ginocchia dei due passeggeri seduti ai posti esteriori e rimasi di fronte a Ana e quasi subito, perché ero sceso alla metro per giocare un’altra volta al gioco, cercai il profilo di Margrit dentro al riflesso del vetro del finestrino e pensai che non era male, che mi piacevano i capelli neri con una specie di ala corta che le pettinava in diagonale la fronte.

Non è vero che il nome di Margrit o di Ana venisse dopo o che sia ora un modo per differenziarle nella scrittura, cose del genere si davano per decise all’istante dal gioco, voglio dire che in nessun modo il riflesso nel vetro del finestrino poteva chiamarsi Ana, così come neanche si poteva chiamare Margrit la ragazza seduta di fronte a me senza guardarmi, con gli occhi persi nella noia di quest’interregno nel quale tutti quanti sembrano consultare una zona di visione che non è la circostante, tranne i bambini che guardano fisso e in pieno le cose fino al giorno che gli si insegna a situarsi anche negli interstizi, a guardare senza vedere con quella civile ignoranza di tutte le cose che appaiono vicine, di tutti i contatti sensibili, ognuno sistemato nella sua bolla, allineato tra parentesi, facendo attenzione alla validità del minimo spazio libero tra le ginocchia e i gomiti degli altri, che si rifugiano in France Soir o in libri tascabili anche se quasi sempre come Ana, degli occhi situandosi nel buio tra tutte le cose veramente guardabili, in questa distanza neutra e stupida che andava dalla mia faccia a quella dell’uomo concentrato nel Figaro.

Ma allora Margrit, se qualcosa potevo prevedere era che in qualche momento Ana si sarebbe girata distratta verso il finestrino e allora Margrit avrebbe visto il mio riflesso, l’incrocio di sguardi nelle immagini di questo vetro dove il buio del tunnel mette il suo mercurio attenuato, la sua spugna violetta che trema e da alle facce una vita in altri piani, gli toglie questa orribile maschera di gesso delle luci municipali del vagone e soprattutto, e sì, non l’avresti potuto negare, Margrit, gli fa veramente guardare quest’altra faccia di vetro perché nel tempo istantaneo del doppio sguardo non esiste censura, il mio riflesso nel vetro non era l’uomo seduto di fronte a Ana e che Ana non doveva guardare in pieno in un vagone della metropolitana, e ancora quella che stava guardando il mio riflesso non era più Ana ma Margrit nel momento in cui Ana aveva staccato rapidamente gli occhi dall’uomo seduto di fronte a lei perché non stava bene che lo guardasse, girandosi verso il vetro del finestrino aveva visto il mio riflesso che aspettava questo istante che lo sguardo di Margrit cadesse come un passerotto nel suo sguardo, per sorridere senza insolenza né speranza.

Dovette durare un secondo, o forse anche di più perché sentii che Margrit aveva avvertito quel sorriso che Ana biasimava anche se soltanto con il gesto di abbassare la faccia, di esaminare vagamente la chiusura lampo della sua borsa rossa di cuoio; ed era quasi giusto continuare a sorridere anche se Margrit non mi stesse più guardando perché in qualche modo il gesto di Ana accusava il mio sorriso, continuava a saperlo lì e non era più necessario che lei o Margrit mi guardassero, concentrate nel lavoro insignificante di controllare la chiusura della borsa rossa.

Come già con Paula ( con Ofelia ) e con tante altre che s’erano concentrate nel lavoro di verificare una chiusura, un bottone, la piega di una rivista, ancora una volta fu il pozzo dove la speranza si irretiva al timore in un crampo mortale di ragni, dove il tempo iniziava a battere come un secondo cuore nel polso del gioco; da questo momento in poi ogni stazione della metro veniva a essere una trama differente del futuro perché così l’aveva deciso il gioco; lo sguardo di Margrit e il mio sorriso, il regresso istantaneo di Ana alla contemplazione della chiusura della sua borsa erano l’apertura di un rito che qualche volta avevo iniziato a celebrare contro ogni cosa ragionabile preferendo i peggiori disincontri alle stupide catene del caso di ogni giorno. Spiegarlo non è difficile ma giocarlo voleva dire molti combattimenti alla cieca, era un tremante sospensione colloidale in cui qualsiasi rotta alzava un albero di imprevedibile percorso. Un piano della metropolitana di Parigi definisce nel suo scheletro mondrianesco, nei suoi rami rossi, gialli, azzurri e neri una vasta ma limitata superficie di pseudopodi sottintesi: e quest’albero resta vivo venti ore di ogni ventiquattro, una linfa tormentata lo percorre con precise finalità, quella che scende a Châtelet o sale a Vaugirard, quella che all’Odeon cambia per continuare fino a La Motte-Picquet, le duecento, trecento, va’ a sapere quante possibilità di combinazione perché ogni cellula codificata e programmata faccia ingresso in un settore dell’albero e affiori in un altro, esca dalle Gallerie Lafayette per posare una confezione di tovaglie o una lampada in un terzo piano della Rue Gay-Lussac.

La mia regola di gioco era maniacale e semplice, era bella, stupida e tirannica, se mi piaceva una donna, se mi piaceva una donna seduta di fronte a me, se mi piaceva una donna seduta di fronte a me attaccata al finestrino, se il suo riflesso nel finestrino incrociava lo sguardo col mio riflesso nel finestrino, se il mio sorriso nel riflesso del finestrino turbava o faceva piacere o disgustava il riflesso della donna nel finestrino, se Margrit mi vedeva sorridere e allora Ana abbassava la testa e iniziava a esaminare con attenzione la chiusura della sua borsa rossa, in quel caso c’era gioco, faceva lo stesso che il sorriso fosse attaccato o corrisposto o ignorato, il primo tempo del rito non andava al di là di questo, un sorriso registrato da chi se lo meritava. Allora iniziava la lotta nel pozzo, i ragni nello stomaco, l’attesa col suo pendolo di stazione in stazione.

Mi ricordo di come m’ero ricordato quel giorno: adesso erano Margrit e Ana, ma una settimana prima erano state Paula e Ofelia, la ragazza bionda era scesa in una delle stazioni peggiori, Montparnasse-Bienvenue che apre la sua idra maleodorante alle moltissime possibilità di fallimento. La mia corrispondenza era con la linea della Porte de Vanves e quasi subito, nella prima galleria, capii che Paula ( che Ofelia ) avrebbe preso il corridoio che portava alla coincidenza con la Marie d’ Issy.

Impossibile fare qualcosa, solo guardarla per l’ultima volta nell’incrocio del sottopassaggio, vederla allontanarsi, scendere delle scale. La regola del gioco era questa, un sorriso nel vetro del finestrino e il diritto di seguire una donna e aspettare disperatamente che la sua coincidenza si richiamasse a quella decisa da me prima d’ogni viaggio; e allora – sempre, fino a oggi – vederla andare per un altro sottopassaggio e non poterla seguire, obbligato a tornare al mondo di sopra e entrare in un café e continuare a vivere fino a che poco alla volta, dopo ore giorni o settimane, di nuovo la sete che reclama la possibilità di far coincidere tutto una volta, donna e vetro di finestrino, sorriso accettato o biasimato, coincidenze di treni e allora finalmente sì, allora il diritto di avvicinarmi e dire la prima parola, ispessita dal tempo affaticato, dall’infinito vagabondaggio nel fondo del pozzo tra i ragni del crampo.

Adesso stavamo entrando nella stazione Saint- Sulpice, qualcuno al mio fianco si alzava per andarsene, anche Ana restava sola di fronte a me, aveva smesso di guardare la borsa e una o due volte i suoi occhi mi spazzarono distratti prima di perdersi nella pubblicità dei bagni termali che si ripeteva nei quattro angoli del vagone. Margrit non era tornata a guardarmi nel finestrino ma questo provava il contatto, il suo battito segreto; Ana doveva essere timida o semplicemente le sembrava assurdo accettare il riflesso di questa faccia che avrebbe continuato a sorridere per Margrit; e in più arrivare a Saint-Sulpice era importante perché sebbene mancassero otto stazioni ancora per la fine del percorso alla Porte d’Orléans, soltanto tre avevano coincidenze con altre linee, e soltanto se Ana fosse scesa in una di questa tre mi sarebbe restata la possibilità di coincidere; quando il treno iniziava a frenare a Saint Placide guardai e guardai Margrit cercandole gli occhi che Ana continuava ad appoggiare blandamente sulle cose del vagone come a voler ammettere che Margrit non mi avrebbe più guardato, che era inutile aspettare che guardasse di nuovo il riflesso che l’aspettava per sorriderle.

Non scese a Saint Placide, lo seppi prima che il treno iniziasse a frenare, ci sono questi preparativi del passeggero, soprattutto delle donne che nervosamente verificano pacchetti, si aggiustano il cappotto o guardano di lato alzandosi, evitando ginocchia in quell’istante che la perdita di velocità fa impedimento e stordisce i corpi. Ana ripassava vagamente le pubblicità della stazione, il viso di Margrit si cancellò dalle luci del binario e non potevo sapere se era tornata a guardarmi; neanche il mio riflesso sarebbe stato visibile in quella marea di neon e pubblicità fotografiche, di corpi che entravano e uscivano. Se Ana scendeva a Montparnasse- Bienvenue le mie possibilità sarebbero state minime; come non potevo ricordarmi di Paula ( di Ofelia ) lì dove una quadrupla corrispondenza possibile rinsecchiva ogni previsione; e senza dubbio il giorno di Paula ( di Ofelia ) ero stato assurdamente sicuro che saremmo coincisi, fino all’ultimo momento avevo camminato a tre metri da quella donna lenta e bionda, vestita come con foglie morte, e la sua biforcazione a destra m’aveva preso la faccia con un colpo di frusta. Per questo adesso Margrit no, per questo la paura, di nuovo poteva orribilmente accadere a Montparnasse-Bienvenue; il ricordo di Paula ( di Ofelia ), i ragni nel pozzo contro la piccola speranza che Ana ( che Margrit ). Ma chi può verla vinta su questa ingenuità che ci lascia vivere… quasi immediatamente mi dissi che forse Ana ( che forse Margrit ) non sarebbe scesa a Montparnasse-Bienvenue bensì in una delle altre stazioni possibili, che probabilmente non sarebbe scesa nelle intermedie dove non m’era dato seguirla; che Ana ( che Margrit ) non sarebbe scesa a Raspail ch’era la prima delle due possibili; e quando non scese e seppi che restava soltanto una stazione in cui potevo seguirla contro le tre finali dove già tutto sarebbe stato lo stesso, cercai di nuovo gli occhi di Margrit nel vetro del finestrino, la chiamai da un silenzio e da un’ immobilità che le sarebbero dovute arrivare come un reclamo, come un’ondosità, le sorrisi col sorriso che Ana non poteva più ignorare, che Margrit doveva ammettere anche se non guardasse il mio riflesso colpito dalle semiluci del tunnel che sbucava a Denfert- Rochereau. Forse il primo colpo di freni aveva fatto tremare la borsa rossa sulle gambe di Ana, forse solo la noia le muoveva la mano fino al ciuffo nero che le attraversava la fronte; in quei tre, quattro secondi in cui il treno andava immobilizzandosi nel binario, i ragni inchiodarono le unghie nella pelle del pozzo per vincermi ancora una volta da dentro; quando Anna si raddrizzò con una sola e pulita flessione del corpo, quando la vidi di spalle tra due passeggeri, credo che cercai assurdamente ancora il viso di Margrit nel vetro accecato da luci e movimenti. Scesi come se non me ne rendessi conto, ombra passiva di quel corpo che scendeva al binario, fino a svegliarmi per quello che doveva succedere, la doppia scelta finale che si compiva irrevocabilmente.

Credo sia chiaro, Ana ( Margrit ) avrebbe preso un cammino quotidiano o di circostanza, mentre prima si salire su quel treno io avevo deciso che se qualcuna fosse entrata nel gioco e scendeva a Denfert-Rochereau, la mia corrispondenza sarebbe stata la linea Nation-étoile, nello stesso modo che se Ana ( se Margrit ) scendeva a Châtelet avrei potuto seguirla soltanto nel caso che prendesse la corrispondenza Vincennes- Neuilly. Nell’ultimo tempo del rito il gioco era perso se Ana ( se Margrit ) prendeva la corrispondenza della Ligne de Sceaux o usciva direttamente in strada; immediatamente, già per il fatto che in questa stazione non c’erano gli interminabili sottopassaggi di altre volte e le scale portavano rapidamente a destinazione, a quella che nei mezzi di trasporto pure si chiamava destinazione.

La stavo vedendo muoversi tra la gente, la sua borsa rossa come un pendolo da gioco, alzando la testa cercando le indicazioni scritte, vacillando un attimo fino a orientarsi poi verso sinistra; e la sinistra era l’uscita che portava alla strada.

Non so come dirlo, i ragni mordevano troppo, non fui disonesto nel primo minuto, semplicemente la seguii per accettarlo forse dopo, lasciarla andare per qualsiasi dei suoi giri lì sopra; per le scale capii che non potevo, che forse l’unico modo per ucciderle era negare per una volta la legge, il codice. Il crampo che mi aveva stretto in quel secondo in cui Ana ( in cui Margrit ) cominciava a salire la scala vietata, cedeva di colpo a una commozione sonnolenta, a un golem di gradini lenti; non volevo pensare, bastava sapere che continuavo a vederla, che la borsa rossa saliva verso la strada, che a ogni passo i capelli neri le tremavano sulle spalle.

Era già sera e l’aria era freddissima, con qualche fiocco di neve tra lampi e la solita pioggia; so che Ana ( che Margrit ) non ebbe paura quando mi misi al suo fianco e le dissi – Non possiamo separarci così, prima di esserci incontrati -.

Nel café, più tardi, già solamente Ana mentre il riflesso di Margrit cedeva a una realtà di cinzano e parole, mi disse che non capiva niente, che si chiamava Marie-Claude, che il mio sorriso nel riflesso le aveva fatto male, che per un attimo aveva pensato di alzarsi e di cambiare posto, che non mi aveva visto seguirla e che per strada non aveva avuto paura, contraddittoriamente, guardandomi negli occhi, bevendo il suo cinzano, sorridendo senza vergognarsi di sorridere, di aver accettato quasi subito la mia persecuzione in strada. In quel momento di una allegria come di ondosità a pancia all’aria, di abbandono a uno scivolare pieno di pioppi, non potevo dirle ciò che lei avrebbe capito come pazzia e che lo era in un altro modo, da altre rive della vita; le parlai del suo ciuffo, della sua borsa rossa, del suo modo di guardare la pubblicità delle terme, del fatto che non le avevo sorriso per farmi il Don Giovanni né per noia ma per darle un fiore che non aveva, il segnale che diceva mi piaci, che mi fai bene, che il fatto di viaggiare di fronte a te, che un’altra sigaretta e un altro cinzano. In nessun momento siamo stati esagerati, parlammo come da un qualcosa già conosciuto e accettato, guardandoci senza commuoverci, io credo che Marie-Claude mi lasciava venire e restare nel suo presente come forse Margrit avrebbe risposto al mio sorriso se non per il trarre conclusioni da pregiudizi, dal fatto che non devi rispondere a quelli che ti parlano per la strada o ti offrono caramelle e vogliono portarti al cinema, fino a che Marie-Claude, già liberata dal mio sorriso a Margrit, Marie-Claude per la strada e nel café aveva pensato che era un bel sorriso, che lo sconosciuto di laggiù non aveva sorriso a Margrit per tastare un altro terreno, e il mio modo assurdo di abbordarla era stato il solo comprensibile, l’unica ragione per dire di sì, che potevamo bere qualcosa e chiacchierare in un café.

Non mi ricordo di quello che le raccontai di me, forse tutto tranne il gioco e allora ci mettemmo a ridere, qualcuno fece il primo scherzo, scoprimmo che ci piacevano le stesse sigarette e Catherine Deneuve, lasciò che l’accompagnassi sotto il palazzo di casa sua, mi tese la mano con dolcezza e acconsentì per lo stesso café alla stessa ora di martedì. Presi un taxi per tornare nel mio quartiere, per la prima volta dentro di me come in un incredibile paese straniero, ripetendomi sì, Marie-Claude, Denfert-Rochereau, avvicinando le palpebre per conservare meglio i suoi capelli neri, quel modo di inclinare la testa prima di parlare, di sorridere.

Fummo puntuali e ci raccontammo film, lavoro, verificammo differenze ideologiche parziali, lei continuava ad accettarmi come se meravigliosamente le bastasse questo presente senza ragioni, senza domande; neanche sembrava rendersi conto che qualsiasi imbecille l’avrebbe creduta facile o scema; accettando anche che io non cercassi di dividere lo stesso sgabello nel café, che nel tratto della rue Froidevaux non le passassi il braccio sulla spalla nel primo gesto di una intimità, che sapendola quasi sola – una sorella minore, molto spesso assente dal suo appartamento al quarto piano – non le chiedessi di poter salire.

Se c’era qualcosa di cui non poteva sospettare erano i ragni, c’eravamo incontrati tre o quattro volte senza che mordessero, immobili nel pozzo e aspettando fino al giorno in cui venne a saperlo come se non l’avesse saputo da sempre, ma i martedì, arrivare al café, immaginare che Marie-Claude fosse già lì o vederla entrare con passi agili, il suo moro ricorrere che aveva lottato innocentemente contro i ragni di nuovo svegli, contro la trasgressione del gioco che lei soltanto aveva potuto difendere senz’altro che darmi una breve, limpida mano, senza altra cosa che quel ciuffo nero che le passeggiava sulla fronte.

Qualche volta dovette rendersene conto, restò guardandomi senza dire niente, aspettando; era già impossibile che non notasse il mio sforzo per far durare la tregua, il mio sforzo di non ammettere che stavano tornando nonostante Marie-Claude, contro Marie-Claude che non poteva capire, che restava a guardarmi senza dire niente, aspettando; bere e fumare e parlarle, difendendo fino all’ultimo pezzo di quel dolce spazio senza ragni, sapere della sua vita semplice e puntuale e sorella studentessa e allergie, desiderare tanto quel ciuffo nero che le pettinava la fronte, desiderarla come un termine, come davvero l’ultima stazione dell’ultima metro della vita, e allora il pozzo, la distanza della mia sedia a quello sgabello dove ci saremmo baciati, dove la mia bocca avrebbe bevuto il primo profumo di Marie-Claude prima di portarmela abbracciata fino a casa sua, salire quella scala, spogliarci finalmente di tanti vestiti e tanta attesa.

Allora glielo dissi, mi ricordo del muro del cimitero, che Marie-Claude si appoggiò lì e mi lasciò parlare con la testa persa nel muschio caldo del suo cappotto, va’ a sapere se la mia voce le arrivò con tutte le parole, se fosse stato possibile che capisse; le dissi tutto quanto, ogni dettaglio del gioco, le improbabilità confermate da tante Paula ( da tante Ofelia ) perse alla fine di una galleria, i ragni a ogni fine. Piangeva, la sentivo tremare contro di me sebbene continuasse a coprirmi, sostenendomi con tutto il suo corpo appoggiato alla parete dei muri; non mi chiese niente, non volle sapere perché e nemmeno da quando, non le venne di lottare contro una macchina montata tutta una vita al contrario di se stessa, della città e delle sue parole d’ordine, soltanto questo pianto lì come un piccolo animale ferito, resistendo senza forze al trionfo del gioco, alla danza esasperata dei ragni nel pozzo. Sotto al palazzo di casa sua le dissi che non tutto era perso, che da noi due dipendeva tentare un incontro legittimo; adesso lei conosceva le regole del gioco, forse ci sarebbero servite se solo non avremmo fatto altro che cercarci. Mi disse che poteva chiedere quindici giorni di licenza, viaggiare portandosi un libro perché il tempo fosse meno umido e ostile nel mondo di sotto, passare da una coincidenza all’altra, aspettarmi leggendo, guardando le pubblicità. Non volevamo penare all’improbabile, al fatto che forse ci saremmo incontrati in un treno e che non sarebbe bastato, che questa volta non si poteva scappare a quello che era già stabilito; le dissi di non pensare, di lasciar correre la metro, di non piangere mai durante queste due settimane in cui l’avrei cercata; senza parole capimmo che se il termine di giorni si chiudeva senza che ci fossimo rivisti o che ci vedessimo fino a quando due sottopassaggi differenti facevano il resto, non avrebbe più avuto senso ritornare al café, al palazzo di casa sua. Ai piedi di quella scala di quartiere che una luce arancione tendeva dolcemente verso l’alto, verso l’immagine di Marie-Claude nel suo appartamento, tra i suoi mobili, nuda e addormentata, le baciai i capelli, le accarezzai le mani, lei non cercò la mia bocca, si allontanò e la vidi di spalle, salendo un’altra delle tante scale che se la portavano senza che potessi seguirla; ritornai a casa a piedi, senza ragni, vuoto e pulito per la nuova attesa; adesso non potevamo fare niente, il gioco cominciava come tante altre volte ma soltanto con Marie-Claude, il lunedì scendendo alla stazione di Couronnes di mattina, uscendo a Max Doromoy in piena notte, il martedì che entro a Cromée, il mercoledì a Philippe Auguste, la regola precisa del gioco, quindici stazioni tra cui quattro avevano coincidenze, e allora nella prima delle quattro sapendo che mi sarebbe toccato seguire per la linea Sèvres-Montreuil come nella seconda avrei preso la corrispondenza Clichy- Potre Dauphine, ogni itinerario scelto senza una ragione particolare perché non potevano esserci ragioni, Marie-Claude sarebbe salita probabilmente vicino casa sua, a Denfert-Rochereau o a Corvisart, stava cambiando a Pasteur per continuare verso Falguière, l’albero mondrianesco con tutti i suoi rami secchi, l’azzardo delle tentazioni rosse, azzurri, bianche, punteggiate; il giovedì, il venerdì, il sabato. Da qualsiasi binario vedere i treni che entravano, i sette o otto vagoni, lasciandomi guardare mentre passavano sempre più lenti, correre verso la fine e salire in un vagone senza Marie-Claude, lasciar passare un treno o due, salire nel terzo, continuare fino al capolinea, ritornare in una stazione da dove potevo passare ad un’altra linea, decidere che avrei preso soltanto il quarto treno, abbandonare la ricerca e salire a fare un boccone, ritornare quasi subito con una sigaretta amara e sedermi su una panchina fino al secondo, fino al quinto treno. Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, senza ragni perchè aspettavo ancora, perché aspetto ancora su questa panchina della stazione di Chemin Vert, con questo taccuino su cui una mano scrive per inventarsi un tempo che non sia solamente questa raffica che mi lancia a sabato prossimo quando forse tutto sarà concluso, quando tornerò solo e li sentirò che si stanno svegliando e mordono, le loro zampe rabbiose che esigono un nuovo gioco, altre Marie-Claude, altre Paula, la reiterazione dopo ogni insuccesso, il ricominciare canceroso. Ma è giovedì, è la stazione Chemin Vert, fuori è caduta la notte, si può ancora immaginare qualsiasi cosa, addirittura potrebbe non sembrare incredibile che nel secondo treno, che nel quarto vagone, che Marie-Claude su un posto attaccato al finestrino, che m’abbia visto e si sia messa dritta con un urlo che nessuno tranne me può leggerle in piena faccia, in piena corsa per attraversare il vagone pieno, spingendo qualche passeggero indignato, mormorando scuse che nessuno le vuole o se le aspetta, restando in piedi davanti al doppio sedile occupato da gambe e ombrelli e buste, da Marie-Claude col suo cappotto grigio attaccato al finestrino, il ciuffo nero che la corsa brusca del treno agita appena come le sue mani che tremano sulle gambe in un richiamo che non ha nome, che è soltanto ciò che succederà adesso.

Non c’è bisogno di parlarsi, non ci si potrebbe dire niente su questo muro sconfinato e impassibile di facce e ombrelli tra Marie-Claude ed io; restano tre stazioni che coincidono con altre linee, Marie-Claude dovrà scegliere una di quelle, ricorrere il binario, seguire uno dei sottopassaggi o cercare la scala per uscire, aliena alla mia scelta cui questa volta non trasgredirò. Il treno entra nella stazione Bastille e Marie-Claude continua lì, la gente sale e scende, qualcuno lascia libero il posto al suo fianco ma non mi avvicino, non posso sedermi lì, non posso tremare insieme a lei come lei starà tremando. Adesso vengono Ledru-Rollin e Froidherbe-Chaligny, in queste stazioni senza corrispondenza Marie-Claude sa che non posso seguirla e non si muove, il gioco si deve giocare a Reuilly-Diderot o a Daumesnil; mentre il treno entra a Reuilly-Diderot girò gli occhi dall’altra parte, non voglio che lo sappia, non voglio che possa capire che non è lì. Quando il treno si mette in marcia vedo che non si è mossa, che ci resta un’ultima speranza, a Daumesnil soltanto una coincidenza e l’uscita per la strada, rosso o nero, sì o no. Allora ci guardiamo, Marie-Claude ha alzato la testa per guardarmi in pieno, afferrato alla sbarra del sedile sono quello che sta guardando, qualcosa di così pallido, come quello che guardo io, la faccia senza sangue di Marie-Claude che stringe la borsa rossa, che farà il primo gesto per alzarsi mentre il treno sta entrando nella stazione Daumesnil.



da Julio Cortàzar - Ottaedro (Manoscritto trovato in una tasca) - Einaudi 1974

domenica 14 giugno 2009

SONO UBRIACO DA 18 ORE E' INCREDIBILE

Se invece il buio scivolasse dentro

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sabato 13 giugno 2009

parzialità totalizzanti

Cercami

anche quando non mi trovi,

anche quando non mi senti,

perchè è quando non mi senti

che ho più bisogno di te.

Cercami,

urla il mio nome.

Urlalo forte. Gridalo se puoi.

Perchè io ci sono qualche emozione più in là.

Cercami

anche quando non mi vedi.

Perchè io ci sono qualche mondo più in là.

Magari sto solo sfarinando ricordi

che si amalgamano con qualche lacrima.

Cercami e se puoi trovami

perchè io ci sono.

Anche se sono solo una parte del mondo

in un mondo a parte

venerdì 12 giugno 2009

Super Santos, pali e capistazione

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È una regola eterna. Immutabile. Bisognerebbe riuscire a trovare una formula matematica. Quantomeno una riduzione numerica, una frase aritmetica, un tentativo di proporzione, un delirio logaritmico. Si dovrebbe trovare una traccia formale per poter comprendere i meccanismi ineluttabili e perenni che regolano le partite di calcio di strada. Il chiattone in porta, quello smilzo e veloce avanti, il robusto in difesa e a centrocampo, tutto il resto. Quello che non ha i piedi buoni ma sa lanciare, quello che sa correre veloce ma ha fiato corto, quello robusto ma non abbastanza stabile. Insomma a centrocampo va messo quello che sa fare tutto a metà. Ora però rispetto a qualche anno fa ci sono delle varianti. Quando ero ragazzino i portieri erano i peggiori. E la porta era una punizione tra le più umilianti. Un posto lontano da cui vedere la partita, ricevere dolorose pallonate in faccia che ti segnavano di rosso il viso per settimane, un ruolo dove eri costretto a raccogliere la colpa del gol subìto ed essere ignorato dagli abbracci del gol realizzato. Piuttosto che un giocatore il portiere era un raccattapalle mobile. Un ruolo terribile.
Spesso il posto del portiere era sopportato a turno ma quando non si trovava nessuno da umiliare in porta, da poter soggiogare nelle retrovie, quando insomma tutti i giocatori erano capaci di tener testa, allora si sceglieva di giocare a “porta americana”. Senza portiere. Due squadre si fronteggiavano cercando di segnare in un’unica porta con nessuno a difenderla: a turno, la squadra difende o attacca, alternandosi nei ruoli dopo ogni gol. Non mi è ben chiaro perché questa modalità sia stata definita all’americana. Una volta tornammo ubriachi da una festa con le quattro portiere dell’auto spalancate, urlando “andiamo all’americana”. Tutto quello che è strano e insensato o forse semplicemente esagerato, come giocare senza portiere o rischiare un incidente mortale, viene definito “americano”.
Oggi invece il portiere è realmente rivalutato. I portieri ora hanno donne bellissime, vincono i palloni d’oro. Così molti ragazzini scelgono di fare il portiere. I chiattoni della squadra non si sentono esiliati nelle retrovie, ma prescelti per difendere l’ultimo baluardo.
Nel centro storico di Napoli tutti i ragazzini neri vanno in porta da quando il Milan ha acquistato un portiere nero brasiliano. Un po’ come quei ragazzi che vengono dall’Argentina e godono di assoluta fiducia nelle proprie capacità sportive di riflesso, grazie a Maradona. Dopo la crisi argentina del 2000 che ha prosciugato i risparmi della piccola e media borghesia, sono sbarcati a Napoli molti argentini i cui avi erano partiti cento anni prima dal golfo. Ora i loro nipoti dopo aver implorato nelle ambasciate italiane il passaporto di ritorno che i loro avi avrebbero strappato volentieri, sono tornati ad abitare nei quartieri da cui erano fuggiti gli emigranti. Un percorso inverso che mai avrebbero immaginato di dover fare. I piccoli profughi dai cognomi italiani e nomi latinoamericani sono tornati a giocare nei vicoli dei loro trisavoli, a scalciare calci d’angolo sui piedi delle statue come i loro bisnonni. Il solo fatto di provenire dalla terra di Maradona, il solo fatto di avere una cadenza simile a quella del pibe de oro, basta per attribuire subito a questi ragazzini un carisma infinito e una bravura certa.
Il tocco, la conta che avviene tra i due capisquadra per scegliere i giocatori è un vero laboratorio antropologico. I capisquadra sono i più bulli, non sempre i più bravi. Anzi quasi mai. Ma sono quelli che sanno fare scivolate violente rovinando caviglie, che danno testate mirando al naso, che sputano con una mira da cecchino e beccano sempre la pupilla ben aperta. Sono quelli che sanno farla pagare a chi buca il pallone o lo fa finire dietro una cancellata. Ma il tocco è determinato dall’arbitrio delle dita lanciate davanti alle pance, e non c’è bravura, solo caso e fortuna. Se però la squadra dell’attaccante di talento inizia a comporsi di brocchi, il tocco diventa una condanna perché se intorno si costruiscono le scelte peggiori non si avrà alcuna speranza di vittoria. Allora spesso accade che mentre si compone la squadra, che può essere di tre, quattro, cinque o sei persone, il giocatore più forte si accorge chiaramente che il tocco gli è andato storto e il caposquadra sta scegliendo gli scarti. Così non gli rimane che gettarsi a terra e piangere. Senza vergogna alcuna, perché la vergogna di piangere nasce solo quando subisci uno schiaffo, ma piangere contro il destino del tocco è l’unico modo per tentare di rimischiare le dita e ritentare da capo e non c’è vergogna a protestare contro il destino. Dopo il pianto, associato a uno sbattere di piedi e un insieme di bestemmie, spesso non cambia nulla. Ma a volte può capitare che qualcuno rimescoli tutto e tenti di rifare le squadre pur di far cessare il pianto.

Alla fine degli anni Ottanta il gruppetto più forte si trovava sicuramente a nord di Napoli: Dario, Antonio, Giovanni, Giuseppe. Non avevano più di 8 anni a testa quando scorrazzavano per la piazza. Non facevano sempre squadra, si mischiavano, l’uno contro l’altro, a volte in coppia ma quando si mettevano nello stesso gruppo erano imbattibili. Antonio al centro era capace di lanciare a Giovanni ovunque si trovasse. Inventava spazi impossibili, e Giovanni si andava a prendere la palla ovunque sotto i motorini come a un millimetro dal palo. Giuseppe in porta faceva delle uscite precisissime. Con il naso sulla palla saltava a scatto come una ranocchia e gli scatti avvenivano sempre nel momento giusto. Si metteva i guanti di lana, come un fregio di professionalità. In estate usciva con le dita completamente cotte e la pelle bollita. Dario si posizionava fuori l’aria di rigore e sparava delle bordate che lasciavano l’orma del pallone sul muro. Una volta Antonio lanciò il pallone in avanti con un pallonetto, Giovanni si aggrappò alla spalla di una signora per lanciarsi in una mezza rovesciata e ficcò il pallone proprio all’incrocio dei pali, nella porta disegnata sul muro con la vernice. La signora credeva che la stessero scippando, lanciò un grido secco e iniziò a tenersi stretta la borsa, mentre un’altra signora l’aveva acciuffato per i capelli ricci tirandoglieli violentemente. La squadra avversaria chiamò fallo. Giovanni si ribellò dicendo che si era appoggiato a una signora, non a un giocatore, ma alla fine gli avversari ebbero ragione perché per strada tutti sono giocatori e ogni cosa fa parte del campo. Chi attraversa il campo diviene, anche se solo per qualche secondo, parte dell’azione di gioco. Le auto invece sono “fuori”, ma i motorini e le saracinesche possono tenere ancora la palla in gioco.
Antonio era molto preciso anche sulle punizioni. Un piede delicatissimo. Dalla periferia nord prendevano il bus per arrivare in piazza Plebiscito. Giocavano proprio sotto il Palazzo reale, sotto gli occhi delle statue dei sovrani di Napoli. Antonio puntava il pallone all’altezza di Gioacchino Murat poi prendeva una rincorsa di qualche metro e calciava. (Il Super Santos non poteva essere preso di collopiede come il pallone di cuoio. Non si poteva dare nessun tipo di effetto al Super Santos, ogni azzardo sul pallone significava fargli prendere il volo). La palla così calciata da Antonio partiva con un percorso secco, un colpo senza sbavature. Prendeva in pieno l’indice puntato verso terra di Carlo v che cascava come fosse stato attaccato con la saliva. E i ragazzini lo raccoglievano come un trofeo di guerra. Antonio aveva rotto per cinque volte di seguito l’indice di Carlo v. La mattina poi gli amici lo andavano ad avvertire: «Antò, hanno rimesso il dito al re!». Era divenuta una sfida tra Antonio e il restauratore della statua. Ogni volta che lo rimettevano aspettava qualche settimana e poi andava con le sue punizioni a staccare il dito regale. In tanti ci tentavano. Ma solo lui ci riusciva.

Quando Tonino Porcello divenne capozona dell’area nord di Napoli, passava spesso per la piazza dove giocavano i ragazzi. Era attento a ogni partita. Una volta prese una sedia e si sistemò in un angolo della piazza per godersi lo sgambettare dei ragazzini. Per i ragazzini era come se l’autorità massima fosse scesa allo stadio. Come se Hugo Sanchez, l’attaccante messicano che in quegli anni infuocava le curve di mezzo mondo, fosse stato lì a valutarli per poterli proporre al Real Madrid. Tonino Porcello decise che quella piazza sarebbe stata in mano loro. Loro avrebbero sempre giocato lì e per farlo gli avrebbe dato settimanalmente dei soldi. Puntuale, preciso e con qualche moneta in più e mai in meno. La mattina a scuola, e poi dalle quattro di pomeriggio sino a mezzanotte a giocare a pallone. Mentre Tonino parlava a tutti i ragazzini della piazza, ognuno sperava di essere prescelto. E un giorno Porcello tese l’indice, somigliava a quello di Carlo v: «Tu, tu, tu e pure tu».
Chiamò: Dario, Antonio, Giovanni, Giuseppe. Solo loro. Gli altri a casa. Gli altri a giocare nelle ore concesse, solo un po’, come divertimento momentaneo. Loro invece avrebbero potuto vivere giocando. In cambio, il lavoro che dovevano svolgere era semplice. Appena vedevano un’auto della polizia o un’auto civetta che riconoscevano o sospettavano, dovevano gettare il pallone in fondo alla strada e urlare: «’o pallone, ’o pallone, ’o pallone». E così tutti gli avrebbero fatto eco. «’O pallone» avrebbero gridato i negozianti, «’o pallone» avrebbe gridato la signora con la testa fuori dalla finestra, e persino il postino avrebbe urlato «’o pallone». Una richiesta del pallone che diventava allarme. In pochi minuti i pusher avrebbero lasciato la strada, le bustine di coca sarebbero passate di mano in mano e messe al sicuro. Tutto in una manciata di secondi. Più veloce di qualsiasi altro mezzo di comunicazione. Il quartetto era diventato abilissimo. In cambio di qualche lancio fuori campo e strillo, gli veniva garantita la possibilità di giocare a pallone e nient’altro. Nessuna consegna, nessuno di loro doveva fare il garzone, nessuno di loro doveva vendere nulla. Nessuno di loro doveva lasciare la scuola. Porcello voleva che continuassero ad andarci sino al diploma, altrimenti gli assistenti sociali li avrebbero tolti alle famiglie e quindi dal quartiere. Giocare, giocare, giocare. Battere, vincere, segnare. Non avere altro per la testa. Nulla più che le immagini della porta, del centrocampo, dell’aria di rigore. Immagini così vive da trasformare una piazza di spaccio nel San Paolo, e una parete marcia d’umido in una porta regolamentare. Cambiò anche la qualità del pallone. Non più il volante e leggero Super Santos. Tonino Porcello gli garantì una fornitura di Tango. Il Tango era il pallone più simile a quello di cuoio. Stessi colori e superficie rugosa dei palloni calciati in serie A. Il Super Santos era ormai relegato ai tempi in cui ancora non erano stati ingaggiati dal Porcello, quando la piazza non era la loro. Una volta accadde che andarono dal tabaccaio a chiedere l’ennesimo Tango gratuito e non gli fu dato: «Lo dovete pagare. E va bene una volta, va bene due volte. Ma qua bucate dieci palloni a settimana. O pagate o niente!».
Giuseppe impostò lo sguardo nel modo più cupo che poteva. Fece una faccia feroce. Ma il tabaccaio non si sentì minacciato. Bisognava andare direttamente da Tonino Porcello. Andò da solo verso il palazzo dove aveva l’ufficio. Fuori dalla porta i due guardaspalle lo riconobbero subito:
«E che ci fai Peppì?».
«Devo parlare con Tonio urgentemente».
Il tono perentorio fece considerare uomo quello che era evidentemente un bambino. Fu lasciato passare. Dopo pochi minuti Porcello scese tenendo la mano di Giuseppe. Entrò dal tabaccaio, chiamò nel negozio gli altri ragazzi, fece abbassare la saracinesca e disse al negoziante: «E ora mettiti per terra».
«Come per terra?».
«Per terra, hai capito bene, a quattro zampe, muoviti animale!».
Il tabaccaio ubbidì terrorizzato, si mise carponi. Aveva così paura che le mani sudatissime si attaccarono a ventosa sulle piastrelle.
«E ora fate fare il pallone al suo culo».
Giuseppe gli diede un calcio nel sedere con tutta la forza. Dario lo diede di piatto, Antonio fece di tutto per far finire la punta del suo piede dritta nel deretano, Giovanni prese la rincorsa e lanciò un calcio che beccò persino lo scroto. Il tabaccaio si girò come uno scarafaggio rivoltato, con le mani sulle palle. Urlò di dolore lasciando gonfiare la giugulare come una carota. Da allora ebbero sempre palloni in quantità. Senza dover pagare nulla. Partite, dribbling, punizioni. Tutto quello che accade prima o dopo non conta. Non vale. Anzi non esiste. Giocare è tutto. L’utopia di poter solo giocare senza fare altro, senza neanche fermarsi è il vero sogno del calcio. Un sogno che i tifosi sentono punito quando i novanta minuti terminano, quando arriva il lunedì.
Antonio, Dario, Giovanni, Giuseppe non vedevano tradito il loro sogno. Per strada il gioco perenne è immaginabile. Perché la palla è sempre al piede, perché puoi dribblarti il barbiere, fare un corner dalle strisce pedonali, fare un colpo di testa dal balcone. E i quattro volevano solo giocare. Giocare sempre. Giocare per esaurire tutte le forze, ma anche tutti i possibili pensieri. Mangiare per ricaricarsi, dormire per trovare altre energie. E giocare senza essere costretti a relegare il gioco al margine, ad aspettarlo come ricompensa per la fatica, per il lavoro, per il dolore. Un antidoto al dolore, alla fatica, al lavoro. Credere che potesse essere infinita questa risorsa non era impensabile. E poi, anche se si fosse prima o poi interrotto questo eterno esilio nella terra dei balocchi, perché anticipare il terrore, l’angoscia, la paura? Le orecchie si sarebbero allungate in forme asinine presto, e quando la trasformazione in ciuchi sarebbe avvenuta niente avrebbe potuto fermarla. Ma sin quando si poteva giocare, perché fermarsi? E poi chi ha detto che il sogno irrealizzato è meno degno del sogno realizzabile? Il Napoli aveva avuto solo sogni irrealizzati. Grandi giocatori come Rudi Krol, Omar Sivori, José Altafini, partite meravigliose ma alla fine nessun risultato importante. L’illusione può essere l’unica vera realizzazione possibile. E quindi va bevuta tutta. Sino alla feccia.
Intanto Porcello cresceva nel suo clan. Era riuscito a trasformare i luoghi del contrabbando in luoghi di stoccaggio e vendita di cocaina, eroina e tutti i tipi di droghe leggere, pasticche e acidi. Un mercato floridissimo. Porcello con il tempo ebbe incarichi economici dirigenziali e non più esclusivamente organizzativi e militari. Una volta raccontò del capostazione. Diceva che era un suo amico. Era un ferroviere, perciò lo chiamavano il capostazione. Ora è uno dei massimi dirigenti sportivi, i procuratori gli sono vassalli, gli arbitri gli devono carriere e ville, non c’è giocatore straniero di talento che lui non possa raggiungere o tesserare. In queste terre il capostazione è diventato potente, ha saputo stillare danaro e potere dalle imprese che più rendevano: politica e camorra. Ha mandato in cancrena giocatori, squadre, allenatori, ha imboscato miliardi di lire bruciandoli per l’acquisto di celeberrimi incapaci; è riuscito a far giungere anabolizzanti sconosciuti; ha saputo difendere suoi dirigenti accusati; ha saputo fare di suo figlio, il più tonto dei figli, un ricercato procuratore. Dal veleno dell’infezione ha ricavato vita e salubrità per sé e per i suoi clienti. Il capostazione adorava tutti gli intermediari, i mediatori, li vedeva come sue braccia da usare senza dover sporcare le sue dita, candide e senza calli. E poi queste braccia aggiunte potevano essere tagliate in ogni momento. Tonino Porcello era una delle miriadi di braccia che il capostazione usava.
Tonino gestiva i soldi che il suo clan investiva in giocatori e squadre, si sentiva prescelto dal capostazione ignorando di far parte di uno stuolo interminabile di sensali: uno dei molti, uno degli ultimi. Aveva iniziato a far carriera nel calcio accompagnando il capostazione a conoscere il presidente dell’Avellino, il costruttore di Mercogliano Antonio Sibilia. Il presidente dell’Avellino lo incontrarono in tribunale a un processo. Non era andato a testimoniare, né era imputato, ma si era recato da Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata, per donargli una medaglia. Una medaglia d’oro con dedica. Da un lato inciso il profilo del lupo irpino, dall’altro l’omaggio: «A Raffaele Cutolo dall’Avellino calcio». Un giornalista sportivo denunciò la cosa. Luigi Necco, il giornalista che seguiva il Napoli. Raccontò la cosa alla trasmissione Novantesimo minuto. Una trasmissione che interrompeva matrimoni, operazioni chirurgiche, funerali, capace di far tacere qualsiasi discorso al solo sibilare della sigla. E così il giorno dopo, contravvenendo all’assoluto ordine di Cutolo di non toccare i giornalisti, spararono nelle gambe di Necco. Lo punirono perché aveva svelato l’omaggio privato, il vassallaggio che doveva rimanere un gesto familiare.
Dario, Antonio, Giuseppe, Giovanni erano ormai i più forti calciatori di strada dell’area nord di Napoli. La squadra juniores del Napoli li prese. Giocarono tre partite, mostrando a tutti cosa significava avere talento nel calcio. Macinavano il campo. Li stavano per tesserare quando Tonino Porcello si presentò al campo. Antonio lo vide da lontano, mentre si stava tirando su i calzettoni. E prima di finire di srotolarli aveva già capito tutto: la piazza era troppo scoperta, gli altri ragazzi non riuscivano a coprirla bene e addio tesseramento. Tornarono così a giocare per strada. Qualche mese più tardi, fecero una partita con i maranesi. I rivali di sempre. Si stavano scontrando con falli pesanti, cross nervosi, spallate da rugby. Dario aveva tra i piedi il pallone. Davanti due difensori e il portiere fuori dai pali. Gli venne in mente un’azione che aveva visto pochi giorni prima in Atalanta-Juventus. L’aveva in mente chiarissima. Aveva stampato in mente come aveva dribblato la difesa Evair, un brasiliano tozzo finito all’Atalanta quasi per caso, con una faccia da innocuo mascalzone. Dario gli somigliava persino. Arrivò un’auto della polizia ma lui continuò l’azione. Ne passò un’altra ma Dario continuò i suoi tocchi. Gli altri iniziarono a urlare «’o pallone ’o pallone», ci fu immediatamente un’ansia generale, i ragazzini iniziarono a scappare e urlare, mentre Dario ostinato continuava ancora la sua artistica azione ispirata a Evair. I poliziotti si insospettirono. I ragazzi furono tutti identificati. La Polizia arrestò diversi pusher, bloccò alcune donne che stavano nascondendo le buste di coca. Il fortino venne espugnato.
Dario il giorno dopo fu portato nell’ufficio di Porcello.
«Allora? Cosa hai combinato?».
Dario non aveva neanche il coraggio di muovere la lingua in bocca.
«Era troppo bella l’azione che stavo facendo».
«Ma che cazzo dici! Ma che significa troppo bella? Ma io ti pago, ma tu veramente vuoi fare il calciatore con i soldi miei? Tu dovevi lanciare il pallone, dare l’allarme, perché non l’hai fatto?».
«Era troppo bella l’azione, mi dispiaceva interromperla…».
Porcello gli mollò uno schiaffo di rovescio lasciandogli sulla guancia un graffio, la traccia del suo anello. Nessuna bellezza poteva fermare l’economia del quartiere. Per i ragazzi essere pali significava poter vivere giocando a pallone. Per il clan giocare a pallone significava poter vivere facendo i pali.

Ormai i ragazzi crescevano e non potevano più ricevere pochi spiccioli per stare in strada. Ora dovevano scegliere il ruolo da rivestire nell’organizzazione. Ognuno fu fatto entrare nel sistema da Tonino Porcello. Quella ispirata da Evair fu l’ultima partita che fecero tra loro. Tutti e quattro.
Anni dopo arrivò una convocazione a Brescia, in un albergo. Vennero chiamati tutti. Antonio aveva conservato un viso identico. Giuseppe giunse con i guanti. Giovanni continuava a essere scheletrico e nodoso. Sembrava che non fosse passato un solo giorno dalle partite per strada. Mancava solo Dario. Ma ormai lui si era inimicato il sistema. Dopo lo schiaffo ogni suo ruolo era stato cancellato. Tutti e tre erano stati convocati dal Porcello. Lo incontrarono mentre dava i documenti all’albergo. E solo in quel momento seppero che Porcello non era un soprannome. Era il suo reale cognome. Sulla carta d’identità era scritto precisamente Antonio Porcello. Il capostazione gli aveva chiesto un favore. Un favore delicato. Uno di quelli che devono essere assolutamente adempiuti. Bisognava scortare un cuore. Un cuore di un ragazzo da dare a un uomo di un boss. Francesco Mollo, braccio destro di Gennaro Veneruso, il boss di Volla, uno dei padrini più spietati del vesuviano. Mollo attendeva il cuore da tempo e temeva però che non l’avrebbero fatto mai arrivare.
La notizia del trapianto circolava ed erano in molti a non voler far continuare la vita di Mollo. Aveva bisogno di una sicurezza, voleva che il suo cuore fosse scortato. E allora si era rivolto ai secondiglianesi. Così Porcello aveva convocato i suoi ragazzi. Il cuore da dare a Mollo era di un giocatore del Brescia. Vittorio Mero. Un difensore centrale. Prima che un tir travolgesse la sua auto mentre stava tornando a casa, erano solo i tifosi del Brescia a conoscerlo. Mero era un giocatore perbene. Uno di quelli che lavorano senza falli, attenti su ogni palla. Uno di quelli di cui nessuno si ricorda. Vittorio stava ritornando a casa quando è morto. Era stato squalificato. Avrebbe dovuto giocare Brescia-Parma, una semifinale di Coppa Italia. Baggio aveva avuto la notizia del suo incidente e l’aveva detto ai compagni di squadra. Nessuno se la sentì di scendere in campo. Mero era uno di quelli di cui nessuno si ricorda. Perché i difensori devono spaccare le ossa, farsi espellere, tranciare i piedi. Ci sono calciatori che sembrano giocare come se stessero alla catena di montaggio, lì in mezzo al campo a fare il loro dovere, avanti e indietro. Terrorizzati dall’essere tagliati, cacciati, prestati in qualche serie minore a otto ore di treno da casa. I telecronisti diedero la notizia del decesso in diretta tv e la sua famiglia che attendeva la partita, apprese la morte di Vittorio così.
La mattina dopo arrivò l’auto con il cuore. I tre entrarono armati nell’auto che gli aveva dato Tonino Porcello. La squadra si ricompose. Mentre camminavano Antonio inchiodò l’auto prima di imboccare l’autostrada per Milano. Le ruote posteriori pattinarono. Giovanni sbatté la testa contro il cruscotto. Come per istinto Giuseppe caricò il fucile, sicuro che ci fosse qualche problema. «Cos’è stato?».
Antonio si fissava le cosce. Poi iniziò a parlare: «Non mi pare giusta questa cosa?».
«Quale cosa?».
«Che il cuore di questo ragazzo debba essere dato a Francesco Mollo. Uno non vive fino a trent’anni per dare il cuore a uno come Mollo».
Giovanni era già in ansia e le riflessioni di Antonio non lo rasserenavano. «Ma come ti viene adesso di farti questi problemi. Ma proprio ora, cazzo, hai deciso di pensare al cuore di questo?».
«Ma questo è il cuore di un calciatore, uno come noi. Un cuore. Un cuore di uno che ha giocato a pallone. Sapete cosa significa? Non è giusto!».
Difficile discutere di giustizia quando hai una mitraglietta Uzi a tracollo e in macchina persone con due fucili a pompa carichi e pronti a sparare. Ma forse non ci sono momenti idonei per riflettere su certe cose. Antonio non ce la faceva a consegnare il cuore di un giocatore a un camorrista. Anche lui era un camorrista, anche lui si era affiliato. Ma era diverso. Lui l’aveva fatto per fare altro, per campare come un calciatore, per vivere di gioco. E poi non avrebbe mai chiesto il cuore a nessuno. Mollo era l’uomo di fiducia di un boss implicato in una storia che i ragazzi non potevano sopportare. Veneruso aveva dato l’ordine di punire un uomo del clan Orefice e aveva organizzato tutto affinché fosse realizzato con la massima violenza. L’agguato doveva avvenire in una città del napoletano dal nome ridicolo, Pollena Trocchia, che Totò usava come metafora per definire un paese sperduto, una realtà microscopica per antonomasia. Ma di ridicolo e ironico questo paese ha soltanto la cacofonia del nome. I killer non dovevano colpire Raffaele Terracciano, ma un fratellastro di suo padre. Dovevano colpire lui. Ma avevano dinanzi Raffaele, e così iniziarono a sparare su tutto quanto si muovesse o fosse immobile. Valentina, una bimba morì con un colpo alla testa. Aveva due anni, stava in braccio al padre quando arrivò la pioggia di colpi. Il boss non si era preso neanche la responsabilità dell’ordine che aveva dato e si era lavato dell’onta facendo fuori gli esecutori e addossando su di loro tutte le colpe.
«E a quella bambina non ci devo pensare? Neanche le palle di prendersi loro la responsabilità hanno avuto!».
«No, non ci devi pensare, a te ha fatto qualcosa? No! E allora?».
Era vero. Mollo non gli aveva fatto nulla. E questo bastava per renderlo degno di rispetto e in diritto di ricevere il cuore di quel giovane calciatore. Risultava ridicolo ragionare in astratto. Il principio di giustizia non può articolarsi in maniera astratta. Altrimenti coinvolge tutti, colpevoli i ministri, colpevoli i papi, colpevoli i santi e gli eretici, colpevoli i rivoluzionari e i reazionari. Colpevoli tutti di aver fallito, ucciso, sbagliato. Giustizia e ingiustizia potevano avere definizione solo se considerate nel loro ruolo concreto. Di vittoria o sconfitta, di atto fatto o subito. Se qualcuno ti feriva, ti maltrattava, stava commettendo un’ingiustizia, se invece ti trattava nel migliore dei modi ti faceva giustizia. Bisognava fermarsi a questi calibri. A queste maglie di giudizio. Bastavano. Dovevano bastare. Questa è l’unica reale forma di valutazione della giustizia. Il resto è solo religione e confessionale. E così anche Mollo meritava il suo cuore giovane, la possibilità di campare ancora. L’auto con il cuore di ricambio per il camorrista vesuviano arrivò sana e salva a Milano. Porcello li aspettava. Si fermò vicino ad Antonio: «Poi mi sono dimenticato di dirti che non era più il cuore del giocatore. Era messo troppo male, ma qua si ammazzano continuamente sulle strade e un primario amico del capostazione ne ha trovato subito un altro di cuore da dare a quel disgraziato di Mollo».
Il capostazione riusciva persino a decidere non solo delle volontà e della vita degli altri. Ma persino degli organi, della morte, dei trapianti. Sembrava davvero capace di mettere le mani nelle viscere di chiunque. Antonio fissò Giovanni e Giuseppe cercando di capire chi aveva raccontato a Porcello le sue perplessità. Ma della delazione non se ne curò molto. È una necessità per chi fa certi lavori. Per Antonio fuori dal gioco tutto poteva accadere e tutto si aspettava. Nel gioco, nel gioco solo può esistere la realtà che lui voleva vivere. Era sul campo la vera vita, non altrove. Antonio non smise mai di giocare a pallone. Divenne centravanti del Real Casavatore. Real! Con questo prefisso altisonante non giustificato da nessuna monarchia e nessuna assoluta nobiltà si appellavano molte squadre dell’entroterra campano: il Real Marcianise, Real Aversa, Real Marzano. Una volta il sindaco di un paesino del casertano, orgoglioso per la promozione della propria squadra, aveva invitato la fotografa della «Gazzetta dello Sport». Mentre stava per fare la foto, due del Real le si avvicinarono bloccandola. Chiamarono due giardinieri che si spogliarono dinanzi a lei. Poi si rivestirono con il completo della squadra. L’attaccante e il libero del Real erano latitanti, non potevano apparire, giocavano sotto nome falso e nelle foto erano sempre sostituiti da facce occasionali.
Con il tempo, Antonio divenne un fedelissimo del clan Di Lauro di Secondigliano. Approfittava delle trasferte per incontrare i referenti del clan, con cui si incontrava prima di ogni partita fuori lo stadio. Raccoglieva i soldi dei pusher, dei capoterritorio che dovevano dare alla dirigenza la loro quota mensile. Con il tempo gli permisero persino di proporre idee di investimento alla dirigenza del clan. I referenti del clan Di Lauro aspettavano che la squadra di Antonio andasse a giocare nella loro zona per versare le quote alla cassa del clan. Da un po’ di tempo però agli appuntamenti fuori lo stadio non si presentava più nessuno. Casavatore, il paese di Antonio, era finito in mano ai ribelli e nessuno voleva correre il rischio di trattare con qualcuno che proveniva dalla zona di chi si era rivoltato al boss, almeno prima di capire chi sarebbero stati i vincitori della guerra.
Giovanni e Giuseppe seguivano sempre Antonio nei suoi incontri di lavoro. Loro avevano lasciato perdere il calcio. Il sogno del gioco perenne l’avevano abbandonato pagandolo con l’affiliazione al clan e la cura della fornitura di hashish ed eroina a diversi trafficanti del centro Italia. Ma nessuno rimpiangeva nulla. Qui si è abituati a pagare per qualsiasi cosa, ogni scelta la paghi. La scelta di restare, la scelta di emigrare, lavorare in nero, arruolarsi, tutto si paga senza possibilità di vantaggio. È la prima cosa che impari quando cresci da queste parti. Aver pagato per un sogno, il sogno di vivere giocando, in fondo non era peggio di pagare per qualche altro motivo. Se proprio si deve subire, meglio subire per un desiderio che in parte si è assaggiato, piuttosto che per qualcosa che non si assaporerà mai.
Antonio finì la partita e dopo la doccia uscì con Giovanni e Giuseppe. Mentre stavano tornando, un’auto li fermò. Aveva una sirena sul tetto. Scesero due uomini con i tesserini della polizia. I ragazzi non tentarono di fuggire né di fare resistenza. Sapevano come dovevano comportarsi: l’avvocato lo avrebbe pagato il clan, avrebbero continuato ad avere uno stipendio, e un indennizzo versato alle famiglie. Li ammanettarono, li caricarono in auto. L’auto poi d’improvviso si fermò e li fece scendere. I tre non capirono subito, ma quando videro le pistole tutto fu chiaro. Era un’imboscata. Non erano poliziotti ma gli spagnoli. Il gruppo ribelle. Giovanni iniziò a correre e Antonio, come se lo stesse lanciando in attacco, urlava: «Vai Giovà, vai vai vai…».
Giovanni correva sbilenco, per le mani legate dietro la schiena, e la testa come unico perno d’equilibrio. Cadde. Si rialzò. Ricadde. Si faceva forza con il collo. Corse ancora. Lo raggiunsero, gli puntarono un’automatica in bocca. Mi hanno detto che gli hanno trovato i denti rotti, aveva tentato di mordere la canna della pistola, come per spezzarla, o forse l’istinto.
Dario seppe la notizia quasi subito. Lavorava come fioraio a Roma. Era andato via da Napoli, via dal quartiere, via da tutto. Ma ancora, da lontano, si sentiva con i compagni di squadra. Lo svegliò la moglie e non ci fu neanche il bisogno di raccontare i particolari. Era scoppiata la guerra di camorra e sapeva che tra i soldati c’erano Antonio, Giuseppe e Giovanni. Dario prese il treno e tornò a Napoli. Arrivò di notte. Andò sul posto dell’agguato, vide per terra ancora i disegni con il gesso, il sangue seccato vicino ai battiscopa dei marciapiedi, dove l’acqua delle secchiate l’aveva spinto. Chissà se in quell’istante sia venuto in mente a Dario la sagoma di Evair; chissà se si è ricordato che quell’azione, quella sgambettata gli avevano salvato la vita. Dario non ebbe difficoltà a raggiungere la piazza dove giocavano, anche se ora è completamente cambiata. Attraversata da muretti abusivi, fortini abbattuti e ricostruiti. La piazza era stata trasformata in un territorio blindato, un sito di stoccaggio della cocaina che avrebbe inondato mezza Europa. Scavalcò un muro, tagliandosi il palmo con un coccio di bottiglia, ma non se ne accorse nemmeno, non c’era più dolore da sentire. Dallo zaino cacciò il Super Santos. E iniziò la partita. Iniziò a sbattere il pallone sul muro dove era ancora tracciata la porta con la vernice. Punizioni, dribbling, palleggi e poi bordate contro il muro. Nessuno in porta, nessuno in difesa, nessun centravanti. Da solo. All’americana.

Roberto Saviano

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A questa voglia di sparire



giovedì 11 giugno 2009

La forma della spada

Gli traversava il volto una cicatrice amara: un arco cinereo e quasi perfetto che lo sfregiava da una tempia fino all'altro zigomo. Il suo vero nome non importa; tutti a Tacuarembò lo chiamavano l'Inglese della Colorada. L'Inglese veniva dalla frontiera, da Rio Grande do Sul; alcuni assicuravano che in Brasile era stato contrabbandiere. I campi della Colorada erano pantanosi; le acque, amare; l'Inglese, per rimediare a queste deficienze, lavorò al pari dei suoi peoni. Dicono che fosse severo fino alla crudeltà, ma scrupolosamente giusto. Dicono anche che s'ubriacasse; un paio di volte all'anno si chiudeva in camera e ne emergeva dopo due o tre giorni come da una battaglia o da una vertigine, pallido, tremante, sgomento, e non meno autoritario di prima. Ricordo i suoi occhi glaciali, la sua energica magrezza, i suoi baffi grigi. Non frequentava nessuno; vero è che il suo spagnolo era rudimentale, misto di brasiliano. A parte qualche lettera
commerciale e qualche catalogo, non riceveva corrispondenza.

L'ultima volta che visitai i distretti del nord, una piena del torrente Caraguatà mi costrinse a pernottare alla Colorada. Dopo pochi minuti, credetti di notare che la mia presenza era importuna; cercai d’ingraziarmi l’Inglese; m’appigliai alla meno perspicace delle passioni: il patriottismo. Dissi che quando un paese è animato da uno spirito come quello che anima l’Inghilterra, questo paese è invincibile. Il mio interlocutore assentì, ma aggiunse, con un sorriso, che non era inglese. Era irlandese, di Dungervan. Detto questo s’arrestò, come se avesse rivelato un segreto. Dopo cena, uscimmo a guardare il cielo. Questo s'era schiarito, ma dietro le montagne del sud era rigato e incrinato da lampi, ordiva un'altra tempesta. Sulla veranda smantellata, il peone che aveva servito la cena ci portò una bottiglia di rum. Bevemmo a lungo, in silenzio.
Non so che ora fosse quando m'accorsi d'essere ubriaco; non so che ispirazione o che esaltazione o che tedio mi spingesse a chiedergli della cicatrice. Il volto dell'Inglese s'alterò; per qualche secondo pensai che stesse per buttarmi fuori.

Alla fine mi disse con la sua voce abituale:

- Le racconterò la storia della mia ferita a una condizione: a condizione di non attenuare alcun obbrobrio, alcuna circostanza infamante.
Assentii.
Ecco la storia che mi narrò, alternando l'inglese con lo spagnolo e anche col portoghese:

Nel 1922, in una delle cittadine del Connaught, io ero uno dei molti che cospiravano per l'indipendenza dell'Irlanda. Dei miei compagni sopravvissuti, alcuni si sono volti a lavori pacifici; altri, paradossalmente, si battono nei mari o nel deserto sotto i colori inglesi. Uno, il più valoroso, morì nel cortile d'una caserma, fucilato all'alba da uomini pieni di sonno; altri (non i più sfortunati) caddero nelle anonime e quasi segrete battaglie della guerra civile. Eravamo repubblicani, cattolici; eravamo - sospetto - romantici. L'Irlanda, per noi, non era solo l'utopico avvenire e l'intollerabile presente; era un'amara e affettuosa mitologia, era le torri
circolari e le rosse paludi, era il ripudio di Parnell e le immense epopee che cantano di tori rubati, tori che in un'altra incarnazione furono eroi e in altre pesci e montagne...
Una sera che non dimenticherò, giunse tra noi un affiliato di Munster: un certo John Vincent Moon.
Aveva appena vent'anni. Era magro e molle a un tempo; dava la spiacevole impressione d'essere
invertebrato. Aveva scorso con fervore e con vanità quasi tutte le pagine di non so quale manuale comunista; il materialismo dialettico gli serviva per tagliar corto a qualsiasi discussione. Le ragioni che può avere un uomo per abominarne un altro, o per amarlo, sono infinite: Moon riduceva la storia universale a un sordido conflitto economico. Affermava che la rivoluzione è destinata a trionfare. Gli dissi che a un gentleman non possono interessare che le cause perdute... Era già notte; continuammo a dissentire in corridoio, per le scale, poi nell'oscurità delle strade. I giudizi emessi da Moon m'impressionarono meno del suo inappellabile tono apodittico. Il nuovo compagno non discuteva: asseriva. E asseriva con sprezzo e con una certa collera.
Eravamo giunti alle ultime case, quando una brusca sparatoria ci assordò. (Poco prima avevamo
costeggiato il lungo muro cieco d'una fabbrica o d'una caserma). Voltammo per una strada di terra battuta; un soldato, enorme nel riverbero, sorse da una baracca incendiata. Ci gridò di fermarci. Io affrettai il passo; il mio compagno non mi seguì. Mi volsi: John Vincent Moon stava immobile, affascinato e come eternato dal terrore. Allora tornai indietro, atterrai con un colpo il soldato, scossi Vincent Moon, lo insultai e gli ordinai di seguirmi. Dovetti sostenerlo col braccio; la paura lo paralizzava. Fuggimmo, nella notte forata dagli incendi. Una scarica di fucileria ci raggiunse; una pallottola sfiorò la spalla destra di Moon; questi, mentre fuggivamo tra i pini, ruppe in un debole singhiozzo.
In quell'autunno del 1922 io m'ero rifugiato nella villa del generale Berkeley. Questi (che non avevo mai visto) ricopriva allora non so quale carica amministrativa nel Bengala; la casa aveva meno d'un secolo, ma era scalcinata e oscura e abbondava di perplessi corridoi e vane anticamere. Il primo piano era tutto occupato dal museo e dall'enorme biblioteca: libri incompatibili, antinomici, che in qualche modo sono la storia del secolo XIX; scimitarre di Nishapur, nei cui archi di cerchio sembrava durare il vento e la violenza delle
battaglie. Entrammo (mi sembra di ricordare) da un sotterraneo. Moon, con le labbra arse e tremanti, mormorò che i casi di quella notte erano stati interessanti; lo medicai, gli portai una tazza di tè; accertai che la sua «ferita» era superficiale. D'un tratto perplesso, balbettò:
– Ma lei s'è notevolmente arrischiato.
Gli dissi di non preoccuparsi. (L' abitudine della guerra civile m'aveva spinto ad agire come agii; inoltre, la cattura d'un solo affiliato poteva compromettere la nostra causa).
Il giorno dopo, Moon aveva recuperato il suo equilibrio. Accettò una sigaretta e mi sottopose a un severo interrogatorio su «le risorse economiche del nostro partito rivoluzionario». Le sue domande erano molto lucide; gli dissi (ed era vero) che la situazione era grave. Improvvise scariche di fucileria scossero il sud.
Dissi a Moon che i compagni ci aspettavano. Avevo lasciato il soprabito e la rivoltella in camera mia; quando tornai, trovai Moon steso sul sofà, con gli occhi chiusi. Pensava di avere la febbre; disse che una contrazione dolorosa gli immobilizzava la spalla.
Compresi allora che la sua codardia era irreparabile. Gli consigliai vagamente di riguardarsi e me ne andai. Quell'uomo impaurito mi faceva vergogna, come se il vigliacco fossi stato io, e non Vincent Moon. Ciò che fa un uomo, è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo. Forse Schopenhauer ha ragione: io sono gli altri, ogni uomo è tutti gli uomini, Shakespeare è in qualche modo il miserabile John Vincent Moon.
Nove giorni passammo nell'enorme casa del generale. Delle agonie e luci della guerra non dirò nulla: il mio proposito è di raccontare la storia di questa cicatrice che mi sfregia. Quei nove giorni, nella mia memoria, fanno un giorno solo, salvo il penultimo, quando i nostri irruppero in una caserma e potemmo fare esatta vendetta dei sedici compagni mitragliati a Elphin. Io scivolavo via di casa nel primo confuso chiarore dell'alba. Tornavo al cader della notte. Il mio compagno m'aspettava al primo piano: la ferita non gli permetteva di scendere al pianterreno. Lo ricordo con un libro di strategia tra le mani: F. N. Maude o Clausewitz. – L 'arma che preferisco è l'artiglieria, – mi confessò una notte. S'informava dei nostri piani; gli piaceva censurarli o riformarli. Anche soleva deplorare «la nostra lamentevole base economica»;
profetizzava, dogmatico e scuro in volto, la fine rovinosa. – C’est une affaire flambée, – mormorava. Per mostrare che gli era indifferente d'essere un codardo fisico, esagerava la propria superbia mentale. Passarono così, bene o male, nove giorni.
Il decimo, la città cadde definitivamente in potere dei Black and Tans. Alti cavalieri silenziosi
pattugliavano le strade; v'erano ceneri e fumo nel vento; a un angolo di strada vidi un cadavere: meno tenace, nel mio ricordo, d'un manichino sul quale i soldati interminabilmente s'esercitavano al tiro, in mezzo alla piazza... Io ero uscito all'alba, come al solito; ma tornai prima di mezzogiorno. Moon, in biblioteca, parlava con qualcuno; dal tono della voce compresi che parlava per telefono. Poi udii il mio nome; poi, che sarei tornato alle sette; poi, che avrebbero dovuto arrestarmi mentre attraversavo il giardino. Il mio ragionevole amico stava ragionevolmente vendendomi. Lo udii esigere delle garanzie di sicurezza personale.
Qui la mia storia si confonde e si perde. So che inseguii il delatore per neri corridoi d'incubo e alte scale di vertigine. Moon conosceva la casa molto bene, molto meglio di me. Una o due volte lo persi. Lo bloccai prima che i soldati mi fossero sopra. Da una delle panoplie del generale strappai una mezzaluna d'acciaio; con essa gl'impressi sul volto, per sempre, una mezzaluna di sangue.

Borges: a lei che è uno sconosciuto, ho fatto questa confessione. Il suo disprezzo non mi dorrà troppo.

Qui il narratore s'interruppe. Notai che gli tremavano le mani.

- E Moon ? - chiesi.

- Riscosse i denari di Giuda e fuggì in Brasile. Quella sera, sulla piazza, vide fucilare un manichino da soldati ubriachi.

Attesi invano la continuazione della storia. Alla fine gli dissi di continuare.

Allora un gemito l'attraversò; allora mi mostrò con debole dolcezza la curva cicatrice biancastra.
- Lei non mi crede? - balbettò. - Non vede che porto impresso sul volto il marchio della mia infamia? Le ho narrato la storia in questo modo perché lei l'ascoltasse fino alla fine. Io ho denunciato l'uomo che m'aveva protetto: io sono Vincent Moon.
Ora mi disprezzi.

da Luis Borges - Einaudi, 1955


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martedì 9 giugno 2009

AMORE NON NE AVREMO

Dicitencello vuje

Dicitencello
a 'sta cumpagna vosta
ch'aggio perduto 'o suonno
e 'a fantasia.

Ch' 'a penzo sempe,
ch' è tutta vita mia.
I' nce 'o vvulesse dicere,
ma nun ce 'o ssaccio di'

'A voglio bene
'A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm' 'a scordo maje
è 'na passione
cchiù forte 'e 'na catena,
ca me turmenta ll'anema
e nun me fa campa'

Dicitencello
ch' è 'na rosa 'e maggio,
ch' è assaje cchiù bella
'e 'na jurnata 'e sole.

D 'a vocca soja,
cchiù fresca d'e vviole,
i' giá vulesse sèntere
ch'è 'nnammurata 'e me.

'A voglio bene.
'A voglio bene assaje.
Dicitencello vuje
ca nun mm' 'a scordo maje.

è 'na passione
cchiù forte 'e 'na catena,
ca me turmenta ll'anema
e nun me fa campa'

'Na lácrema lucente
v'è caduta,
dicíteme nu poco:
a che penzate?

Cu' st' uocchie doce,
vuje sola me guardate.
Levámmoce 'sta maschera,
dicimmo 'a veritá.

Te voglio bene.
Te voglio bene assaje.
Si' tu chesta catena
ca nun se spezza maje.

Suonno gentile,
suspiro mio carnale,
te cerco comm 'a ll'aria,
te voglio pe' campa'

Te voglio pe' campa'

( versione Alan Sorrenti - Dicitencello vuje, EMI 1974)
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Musica che si spegne

A Petru, musicista per niente

Montesanto, Napoli
27 maggio 09


Correvo oltre il confine della vita a una velocità ormai infinita inciampando oltre al desiderio di volare per tentare di specchiarmi senza lo schifo.
Precipitavo però nel fondo dell’intimità della chiesa di santa maria delle grazie dove cristo muore indicando la via non capita.
Passavo proprio nel centro di Piazzetta Concordia, davanti alla stazione,ma mai nome fu così sbagliato.

Entrando è come se la sentissi ancora quella voce di donna, la moglie, come eco di vittima in croce, che gridava dolore in rumeno, inveiva contro la polizia in uno stentato italiano e stringeva a se una piccola fisarmonica rossa caduta al marito al momento dello sparo.
Correvo quindi oltre i binari per scappare da questa vita, solo un grande dolore.
Il giorno dopo la sparatoria sul treno nessuno pare ricordare nulla.

Io mi fermo aggrappato al palo della cumana quasi a cercare un abbraccio, e non riesco a capire se quello che sento è la musica di quella fisarmonica oppure viene dalla mia mente.

Ma oggi in cumana non suona nessuno.

Eppure so che c’è, quella stessa musica la sento da lontano, non ricordo il suo nome sui giornali non c’è ma ricordo che amavo la velocità del battito delle sue dita…

Sedotto dal pensiero di questa fisarmonica sempre più dolce, in una diabolica ipnosi, racchiuso nel buio più totale, rivedo immagini di tanti viaggi... Montesanto-Pianura, partenza e ritorno
Profeta del buio, il fisarmonicista rumeno è sempre stato mio consigliere, nelle notti di un intera adolescenza…
Nei miei occhi adesso solo il cuore straziato di quella donna che si disintegra, odore d'incenso per le mie narici ed un motivetto zingaro che fischietto a cui unisco un tintinnio battendo le dita piano sul metallo della cumana...
Emozioni rapite per un momento

Il mio corpo lascio che vada da se, lascio che oscilli come la lancetta ubriaca di un vecchio orologio...
Voglio ritrovare quella sensibilità che la gente ha perso lungo il cammino, nel degrado estetico di questo schifo di paesaggio che si vede dai finestrini.
Chiudo gli occhi e la mia mente si disperde nel sonno e nel buio, si sparge nello spazio, si allontana via senza sapere quale sarà la sua direzione, in questa allucinata sensazione, il dolore è attenuato, solo per un istante, buio assoluto in cui so che non potrò vedervi, ma lascio che la mia mente segua solo le vostre note...
E il fiato rumeno penetra nei fori della fisarmonica, ormai esausta, e suona l'ossessione del mondo, e dai pori del suo strumento esce l'aria del dolore...
Apro gli occhi, guardo le mie mani, come un bimbo nella scoperta del suo corpo, e vedo che non sono più le stesse, intravedo al finestrino che qualcosa è segnato anche negli occhi...

Quando ci si sveglia dal dolore non ci si riconosce più.

A Soccavo si aprono le porte ed entra un violinista, io attendo la sua musica,

ma si guarda intorno, immobile, e non fa nulla

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