giovedì 31 gennaio 2013

Poste Equitalie

[inferno della burocrazia, della previdenza sociale, delle imposte, controllo para-militare del sistema di riscossione, incubo del sistema giudiziario]


i professionisti dell'antimafia [di leonardo sciascia]


dal Corriere della sera , 10 gennaio 1987

Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono «eroi della sesta»:

1) «Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta , Einaudi, Torino, 1961).

2) «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo , Einaudi, Torino, 1966).

Il punto focale . Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s'intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane «ricercatore» dell'Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla «mafia in sé» quanto a quel che «si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi - si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un'isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro - anche se alluvionata di retorica - all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga , Pirandello e Guttuso.

Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti - a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) - siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, «en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant'è che allora il «lieto fine» - e se non lieto edificante - era nell'aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.

Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la «pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un «esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.

Nel primo fascismo. idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi «risorgimentali» - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).

Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange «rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.

Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto.

Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.

Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.

Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.

E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico.

Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".

Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna «a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava.

I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

morire la notte di San Lorenzo senza un perchè. [a G.&P.]


lunedì 28 gennaio 2013

«Se ve l'avessi mostrata, replicò Don Chisciotte, che fareste confessando una verità così nota ed evidente? L'importante è che senza vederla, voi lo dovete credere, confessare, affermare, giurare, e difendere, e nel caso in cui non lo facciate...vi aspetto qui a piè fermo, confidando nella ragione che ho dalla mia parte»

Cervantes, Don Chischiotte

Maramè!

"…Che ll'afferra
ca na guerra
ogne tanto s'ha dda fa'?
Forse pe' sfulla ?!
So' 'e putiente,
malamente,
ca cchiù 'a vorza hann'a 'ngrassa',
senz'ave' pietà!
'O prugresso?
More 'o fesso!
Jh che bella civiltà!
Che mudernità!
una è a guerra ca ce spetta
e purtroppo l’amma fa
chella là ca tutte e juorne
se cumbatte pe campà
Marame'! Siente, sie'!
Che battaglia, neh!"


sabato 26 gennaio 2013

Le guerre personali [Pianura, cinque anni dopo la rivolta]



Le guerre personali: Pianura, cinque anni dopo la rivolta
di Fabio Germoglio



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articoli saggi video correlati:
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- La città nel sacco: i dieci giorni di Pianura - di Marcello Anselmo e Luca Rossomando
http://napolimonitor.it/2009/04/02/537/la-citta-nel-sacco-i-dieci-giorni-di-pianura.html

- È stata morta una terra - di Davide Schiavon
http://napolimonitor.it/2013/01/08/19722/e-stata-morta-una-terra.html

- La catastrofe ambientale a Napoli e Caserta: come la peste

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- Biopolitica di un rifiuto, le rivolte antidiscarica a Napoli e in Campania - a cura di Antonello Petrillo
http://www.ombrecorte.it/more.asp?id=212&tipo=culture

- Pianura 2008, rifiuto del degrado, prospettive per il futuro - a cura dell’Associazione Lello Mele e del Comitato per la rinascita dei Pisani

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Tumori a Pianura
http://www.youtube.com/watch?v=B6EC9-D_qN8&feature=youtu.be

Nella terra di Gomorra
http://www.youtube.com/watch?v=w2CarU_LhB0

Corteo a Pianura
http://www.youtube.com/watch?v=WOtZHFCkres

Pianura come Chernobyl
http://www.youtube.com/watch?v=wgFEKghK8G0

Una montagna di balle
http://www.youtube.com/watch?v=c6hRWkU2An8

Biutiful cauntri
http://www.youtube.com/watch?v=M_2mmfF5t5c

Il ministro Balduzzi nella Terra dei fuochi con don Patriciello
http://www.youtube.com/watch?v=jhWaqH9NsgU

sabato 19 gennaio 2013

un contadino nella metropoli


Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia di orzata
dove galleggiava Milano
non fu difficile seguirlo
il poeta della Baggina
la sua anima accesa
mandava luce di lampadina
gli incendiarono il letto
sulla strada di Trento
riuscì a salvarsi dalla sua barba
un pettirosso da combattimento.
I polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
rifacevano il trucco alle troie di regime
lanciate verso il mare
i trafficanti di saponette
mettevano pancia verso est
chi si convertiva nel novanta
era dispensato nel novantuno
la scimmia del quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutto il culo
la piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa
masso per masso
schiavo per schiavo
comunista per comunista.
La domenica delle salme
non si udirono fucilate
il gas esilarante
presidiava le strade.
La domenica delle salme
si portò via tutti i pensieri
e le regine del tua culpa
affollarono i parrucchieri.
Nell'assolata galera patria
il secondo secondino
disse a "Baffi di Sego" che era il primo
si può fare domani sul far del mattino
e furono inviati messi
fanti cavalli cani ed un somaro
ad annunciare l'amputazione della gamba
di Renato Curcio
il carbonaro.
Il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni
- voglio vivere in una città
dove all'ora dell'aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo -
a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile
perché avevamo un cannone nel cortile.
La domenica delle salme
nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale
la domenica delle salme
si sentiva cantare
- quant'è bella giovinezza
non vogliamo più invecchiare -.
Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz'oretta poi ci mandarono a cagare
-voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
con i pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l'Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avevate voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo -
La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia
la domenica delle salme
fu una domenica come tante
il giorno dopo c'erano segni
di una pace terrificante

giovedì 10 gennaio 2013

dove sta Zazà


i nuovi credenti

Ranieri mio, le carte ove l’umana
Vita esprimer tentai, con Salomone
Lei chiamando, qual soglio, acerba e vana,
Spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,
Da Tarsia, da Sant’Elmo insino al Molo,
E spiaccion per Toledo alle persone.
Di Chiaia la Riviera, e quei che il suolo
Impinguan del Mercato, e quei che vanno
Per l’erte vie di San Martino a volo;
Capodimonte, e quei che passan l’anno
In sul Caffè d’Italia, e in breve accesa
D’un concorde voler tutta in mio danno,
S’arma Napoli a gara alla difesa
De’ maccheroni suoi; che a’ maccheroni
Anteposto il morir, troppo le pesa.
E comprender non sa, quando son buoni,
Come per virtù lor non sien felici
Borghi, terre, provincie e nazioni.
Che dirò delle triglie e delle alici?
Qual puoi bramar felicità più vera
Che far d’ostriche scempio infra gli amici?
Sallo Santa Lucia, quando la sera
Poste le mense, al lume delle stelle,
Vede accorrer le genti a schiera a schiera,
E di frutta di mare empier la pelle.
Ma di tutte maggior, piena d’affanno,
Alla vendetta delle cose belle
Sorge la voce di color che sanno,
E che insegnano altrui dentro ai confini
Che il Liri e un doppio mar battendo vanno.
Palpa la coscia, ed i pagati crini
Scompiglia in su la fronte, e con quel fiato
Soave, onde attoscar suole i vicini,
Incontro al dolor mio dal labbro armato
Vibra d’alte sentenze acuti strali
Il valoroso Elpidio; il qual beato
Dell’amor d’una dea che batter l’ali
Vide già dieci lustri, i suoi contenti
A gran ragione omai crede immortali.
Uso già contro il ciel torcere i denti
Finchè piacque alla Francia; indi veduto
Altra moda regnar, mutati i venti,
Alla pietà si volse, e conosciuto
Il ver senz’altre scorte, arse di zelo,
E d’empio a me dà nome e di perduto.
E le giovani donne e l’evangelo
Canta, e le vecchie abbraccia, e la mercede
Di sua molta virtù spera nel cielo.
Pende dal labbro suo con quella fede
Che il bimbo ha nel dottor, levando il muso
Che caprin, per sua grazia, il ciel gli diede,
Galerio, il buon garzon, che ognor deluso
Cercò quel ch’ha di meglio il mondo rio;
Che da Venere il fato avealo escluso.
Per sempre escluso: ed ei contento e pio,
Loda i raggi del dì, loda la sorte
Del gener nostro, e benedice Iddio.
E canta, ed or le sale, ed or la corte
Empiendo d’armonia, suole in tal forma
Dilettando se stesso, altrui dar morte.
Ed oggi del suo duca egli su l’orma
Movendo, incontro a me fulmini elice
Dal casto petto, che da lui s’informa.
Bella Italia, bel mondo, età felice,
Dolce stato mortal! grida tossendo
Un altro, come quei che sogna e dice;
A cui per l’ossa e per le vene orrendo
Veleno andò già sciolto, or va commisto
Con Mercurio ed andrà sempre serpendo.
Questi e molti altri che nimici a Cristo
Furo insin oggi, il mio parlare offende,
Perchè il vivere io chiamo arido e tristo.
E in odio mio fedel tutta si rende
Questa falange, e santi detti scocca
Contra chi Giobbe e Salomon difende.
Racquetatevi, amici. A voi non tocca
Delle umane miserie alcuna parte;
Che misera non è la gente sciocca.
Nè dissi io questo, o se pur dissi, all’arte
Non sempre appieno esce l’intento, e spesso
La penna un poco dal pensier si parte.
Or mia sentenza dichiarando, espresso
Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna
Non è dagli astri alcun poter concesso.
Non al dolor, perchè alla vostra cuna
Assiste, e poi su l’asinina stampa
Il piè per ogni via pon la fortuna.
E se talor la vostra vita inciampa,
Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio
Il non sentire e il non saper vi scampa.
Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio
Rompon l’alme ben nate; a voi tal male
Narrare indarno e non inteso io soglio.
Portici, San Carlin, Villa Reale,
Toledo, e l’arte onde barone è Vito (*),
E quella onde la donna in alto sale,
Pago fanno ad ogni or vostro appetito,
E il cor, che nè gentil cosa, nè rara,
Nè il bel sognò giammai, nè l’infinito.
Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,
A cui grava il morir; noi femminette,
Cui la morte è in desio, la vita amara.
Voi saggi, voi felici: anime elette
A goder delle cose: in voi natura
Le intenzioni sue vede perfette.
Degli uomini e del ciel delizia e cura
Sarete sempre, infin che stabilita
Ignoranza e sciocchezza in cor vi dura:
E durerà, mi penso, almeno in vita.


(*) Celebre venditore di sorbetti, che divenuto ricco, comperò una baronia, e fu domandato il barone Vito. | Nota dell’E. [= Antonio Ranieri]

mercoledì 9 gennaio 2013

Le guerre personali [a B.D.G]

già, si dovrebbe dire qualcosa del lutto,
un giorno o l'altro -
si dovrebbe dire qualcosa del nero -
d'o nniro 'e seccia -
ca ccà scorre a semmènza -
presque un petit ruisseau - 
dentro gli animi nelle case dei palazzoni e per le scalinatelle.

domenica 6 gennaio 2013

Ciccibacca