martedì 14 febbraio 2017

Il terremoto, gridai. La terra si muoveva, una tempesta invisibile mi stava scoppiando sotto i piedi, scrollava la stanza con un urlio di bosco piegato da raffiche di vento. Mi slanciai verso la porta urlando ancora: il terremoto. Ma il movimento era solo un’intenzione, non riuscivo a fare un passo. I piedi mi pesavano, pesava tutto, la testa, il petto, soprattutto la pancia. La terra su cui volevo poggiarmi si sottraeva, per una frazione di secondo c’era e poi subito dopo si allontanava. Il mio pensiero tornò a Lila, la cercai con lo sguardo. La sedia era finalmente caduta, i mobili – soprattutto una vecchia argentiera con i suoi oggettini, bicchieri, posate, cineserie – vibravano insieme ai vetri delle finestre come erbacce su un cornicione quando c’è la brezza. Lila era in piedi al centro della stanza, curva, a testa china, gli occhi stretti, la fronte corrugata, le mani che tenevano la pancia come se temesse che le schizzasse via per perdersi nello spolverio di intonaco. I secondi scivolavano via ma niente mostrava di voler tornare in ordine, la chiamai. Non reagì, mi sembrò compatta, l’unica tra tutte le forme presenti non soggetta a sussulti, a tremiti. Pareva aver cancellato ogni sentimento: le orecchie non ascoltavano, la gola non inspirava aria, la bocca era serrata, le palpebre cancellavano lo sguardo. Era un organismo immobile, rigido, vivo solo nelle mani che a dita larghe stringevano la pancia. Lila, chiamai. Mi mossi per afferrarla, trascinarla via, era la cosa più urgente da fare. Ma la mia parte subalterna, quella che credevo indebolita e invece ecco che risorgeva, mi suggerì: forse devi fare come lei, devi restare ferma, piegarti a proteggere la tua creatura, non correre via. Faticai a decidermi. Raggiungerla era difficile, e tuttavia si trattava solo di un passo. L’afferrai alla fine per un braccio, la scrollai, lei aprì gli occhi che mi sembrarono bianchi. Il rumore era insopportabile, faceva rumore tutta la città, il Vesuvio, le strade, il mare, le case vecchie dei Tribunali e dei Quartieri, quelle nuove di Posillipo. Lila si divincolò, gridò: non mi toccare. Fu un urlo rabbioso, m’è rimasto impresso più dei secondi lunghissimi del terremoto. Capii che mi ero sbagliata: lei, sempre al governo di tutto, in quel momento non stava governando niente. Era immobile per l’orrore, temeva che se solo l’avessi sfiorata si sarebbe rotta.
Il terremoto – il terremoto del 23 novembre 1980 con quel suo frantumare infinito – ci entrò dentro le ossa. Cacciò via la consuetudine della stabilità e della solidità, la certezza che ogni attimo sarebbe stato identico a quello seguente, la familiarità dei suoni e dei gesti, la loro sicura riconoscibilità. Subentrò il sospetto verso ogni rassicurazione, la tendenza a credere a ogni profezia di sventura, un’attenzione angosciata ai segni della friabilità del mondo, e fu arduo riprendere il controllo. Secondi e secondi e secondi che non finivano. La città è pericolosa, mi sussurrò, ce ne dobbiamo andare, le case si crepano, ci cade tutto addosso, le fogne schizzano per aria, guarda i topi come scappano.
Mi strinse forte la mano e chiuse gli occhi quando la macchina di Marcello montò sul marciapiede strombazzando e filò via tra la gente che sostava in chiacchiere. Esclamò: oh Madonna, espressione che non le avevo mai sentito usare. Che c’è, le chiesi. Gridò ansimando che l’auto s’era smarginata, anche Marcello al volante si stava smarginando, la cosa e la persona zampillavano da loro stesse mescolando metallo liquido e carne. Usò proprio smarginare. Fu in quell’occasione che ricorse per la prima volta a quel verbo, si affannò a esplicitarne il senso, voleva che capissi bene cos’era la smarginatura e quanto l’atterriva. Mi strinse ancora più forte la mano, annaspando. Disse che i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così – non era assolutamente così –, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. Contrariamente a come aveva fatto fino a poco prima, prese a scandire frasi sovreccitate, abbondanti, ora impastandole con un lessico dialettale, ora attingendo alle mille letture fatte da ragazzina. Borbottò che non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano, e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea, senza riuscire più a dare contorni nitidi alle sensazioni. Un’emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos’è il mondo vero, Lenù, l’abbiamo visto adesso, niente niente niente di cui si possa dire definitivamente: è così. Per cui se lei non stava attenta, se non badava ai margini, tutto se ne andava via in grumi sanguigni di mestruo, in polipi sarcomatosi, in pezzi di fibra giallastra.