La città si stava trasformando e nessuno sembrava sorpreso dai cambiamenti. Lei ripeteva sconsolata che ormai anche le facce delle persone si erano trasformate, e che tutto era finito, per sempre. Una sera ci eravamo sfiorati per caso restando allacciati come per proteggerci dai motorini che sgommavano, dalle frasi biascicate nei cellulari, dalle urla.
E un pomeriggio avevamo fatto l'amore in una macchia di alberi scampata alla devastazione dell'Orto Botanico.
Avevo la sensazione che il tempo mi mancasse, che sarei morto da un momento all'altro, e stringendole un polso volevo trascinarla di nuovo lì. "Lasciami, basta!" "Ma perchè?" "Perchè lo fai per disperazione e non mi piace". A volte lei mi prendeva la faccia tra le mani e ci baciavamo a lungo, in piedi contro un portone sopravvissuto o dentro un androne buio, con i denti che si urtavano e stringendoci fino a sentire le ossa che dolevano. Come se continuassimo a parlare anche quando restavamo muti di fronte a quello che accadeva, a un tratto rompevamo il silenzio, costretti a gridare per riuscire a sentirci in mezzo ai motorini, alle ruspe. Le urlavo che la amavo.
Lei allungava il passo e diceva che non avevo imparato a dimenticare.
Ma io sapevo di avere dimenticato anche troppo, e avrei voluto ritornare a prima dei giorni sbadati e inutili, a prima dell'ansia che mi mordeva allo stomaco senza preavviso. Se provavo davvero a ricordare ero afferrato dalla nausea, e mi veniva voglia di picchiare le facce per strada. "Che cosa abbiamo da fare in questo mondo con il nostro amore, la nostra fedeltà". Le parole di Novalis mi ossessionavano, e gliele ripetevo. Lei mi guardava scuotendo la testa, diceva che forse io ero l'unico a capire anche se restavo un idiota. Mi arruffava i capelli spingendomi via e a bassa voce cominciava a canticchiare una canzone, sempre la stessa, come tirandola fuori da un pozzo profondo. Dance me through the panic, dance me very long, dance me to the end of love.