Arrivò il 12 marzo, una giornata mite, già primaverile.
Lila volle che andassi presto nella sua vecchia casa, che l’aiutassi a lavarsi,
a pettinarsi, a vestirsi. Mandò via la madre, restammo sole. Si sedette sul
bordo del letto in mutande e reggiseno. Accanto aveva l’abito da sposa, che
pareva il corpo di una morta; davanti, sul pavimento a esagoni, c’era la conca
di rame ricolma d’acqua fumante.
«Qualsiasi cosa succeda, tu
continua a studiare». «Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito». «No,
non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre». Feci un risolino
nervoso, poi dissi: «Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono». «Non per
te: tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e
femmine». Si alzò, si tolse mutande e reggiseno, disse: «Dài, aiutami, che
sennò faccio tardi». Non l’avevo mai vista nuda, mi vergognai. Oggi posso dire
che fu la vergogna di poggiare con piacere lo sguardo sul suo corpo, di essere
la testimone coinvolta della sua bellezza di sedicenne poche ore prima che
Stefano la toccasse. La lavai con gesti
lenti e accurati, prima lasciandola accoccolata nel recipiente, poi chiedendole
di alzarsi in piedi, e ho ancora nelle orecchie il rumore dell’acqua che
sgocciola, e m’è rimasta l’impressione che il rame della conca fosse di una
consistenza non diversa da quella della carne di Lila, che era liscia, soda,
calma. Ebbi sentimenti e pensieri confusi: abbracciarla, piangere con lei,
baciarla, tirarle i capelli, ridere, fingere competenze sessuali e istruirla
con voce dotta, distanziarla con le parole proprio nel momento di massima
vicinanza. Ma alla fine rimase solo il pensiero ostile che la stavo mondando
dai capelli alle piante dei piedi, di buon mattino, solo perché Stefano la
sporcasse nel corso della notte.
L’aiutai ad asciugarsi, a vestirsi, a indossare l’abito da sposa che io – io,
pensai con un misto di fierezza e sofferenza – avevo scelto per lei. La stoffa
diventò viva, sul suo candore corse il calore di Lila, il rosso della bocca,
gli occhi scurissimi e duri. Alla fine si infilò le scarpe da lei stessa
disegnate. «Sono brutte» disse. «Non è vero». Rise in modo nervoso. «Ma
sì, guarda: i sogni della testa sono finiti sotto i piedi». Si girò con
un’espressione improvvisa di spavento: «Cosa mi sta per succedere, Lenù?»