Prefazione Roberto De Simone
( anno 1976 )
Quando cominciai a pensare alla Gatta Cenerentola
pensai spontaneamente ad un melodramma:
un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo
come nuove e antiche sono le favole
nel momento in cui si raccontano.
Un melodramma come favola
dove si canta per parlare e si parla per cantare
o come favola di un melodramma dove tutti capiscono
anche ciò che non si capisce solo a parole.
E allora quali parole
da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole
magari senza parole?
Quelle di un modo di parlare
diverso da quello usato per vendere carne in scatola
e perciò quelle di un mondo diverso
dove tutte le lingue sono una
e le parole e le frasi sono le esperienze di una storia
di paure, di amore e di odio, di violenze
fatte e subite allo stesso modo da tutti.
Quelle di un altro modo di parlare,
non con la grammatica e il vocabolario,
ma con gli oggetti dei lavoro di tutti i giorni,
con i gesti ripetuti dalle stesse persone per mille anni
così come nascere, fare l'amore, morire,
nel senso di una gioia, di una paura,
di una maledizione, di una fatica o di un gioco
come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno.
E queste parole
erano quelle imparate dalla gente che ancora sa parlare
perché chiama festa un giorno
in cui si dice la verità e tutti la capiscono
e chiama gioco la fatica di avere paura per non avere paura.
E queste parole dai cento occhi
affollavano i dialoghi di questa favola
con una storia scritta perfettamente senza essere scritta.
E queste parole erano sempre le stesse
ed erano una grotta dove una vergine perde una scarpa
ed erano la cenere del focolare
e una pianta fatata come il dattero e il basilico
ed erano sei sorelle come sei Madonne
ed erano una gatta come donna
o una donna come gatta
ed erano ancora un giorno di festa al palazzo del re
o in una chiesa dorata
e una carrozza con dodici paggi
quanti sono i mesi di un anno
oppure quante sono le ore di un giorno o di una notte.
E a capo di tutto c'è la madre di tutto e di tutti:
quella madre che aveva partorito tutto
ed era sempre in procinto di partorire,
anche la morte.
Quella madre dai fianchi capaci di reggere dodici figli
come le Matute di Capua
o dal viso largo e le natiche piene
come la Madonna di Castello.
Una madre cattiva come la madre di Cenerentola
o come quella Madonna
che fa cadere i piedi a chi la bestemmia.
Quella madre buona e cattiva nello stesso tempo
a seconda che la si ami o la si odi
o a seconda che ci ami e ci abbia odiato.
Infine, dietro queste parole,
la paura di morire come di fare l'amore,
fare l'amore come morire
ma invece vivere per fare l'amore
anche se è proibito
e poi morire ancora
perché c'è sempre una grotta
e la vergine che perde una scarpa
e la cenere e la pianta e le sei sorelle
e la madre e la matrigna e la Madonna
e tante madonne e un padre cattivo
che si sposa sempre per darci una matrigna
o magari sposerebbe anche la figlia
perché è lui che comanda o crede di comandare
finché Cenerentola o una Madonna
non diventa gatta
e gli graffia il viso fino a farlo tremare
dalla paura di essere divorato come un topo.
Allora egli dopo avere inventato la sua verginità,
dopo aver mozzato il capo ai figli morti prima di nascere
inventa una chiesa
dove è l'unico dio che non può morire
perché ha creato tutto lui.
Ma intanto si accorge che non può partorire
e allora la gatta gli ride dietro
e si siede come la regina al suo posto
calzando la scarpa perduta come vuole lui
ma fregandosene altamente perfino della Santa Inquisizione.
Ripensando a quei tempi come ad oggi
ecco un incontro col cavaliere di queste stesse parole:
fu così che diventai il cavaliere Gianbattista Basile
e imparai che la matrigna la si può decapitare
troncandole la testa in una cassa da biancheria.
In ciò il cavaliere Basile aveva ragione:
basta sapere usare le parole
per esprimere lo stesso gesto:
solo così si ammazzano tutte le matrigne del mondo
e tutti lo capiscono
e alla fine sono contenti e felici.
Ora io ho parlato usando le parole più semplici
che sembrano difficili solo a chi non sa più parlare
ed è anche per questo che ho usato quelle frasi
ripetute da secoli in un teatro dove ci si può capire
perché ieri e domani
abbiamo parlato una lingua che sappiamo benissimo
e credevamo di avere dimenticato
solo perché era nel trovarobato del teatro.
Ed era nel trovarobato non perché non servisse più
ma perché il padrone del teatro
da quando il cinema è diventato sonoro
ha fatto diventare muto il teatro.
Non che in teatro non si parli ché anzi si parla e si parla,
ma si parla tanto tranne che per dire
"sipario" o "quinte" o infine "teatro".
E queste cose
a dispetto di quelli che hanno paura di avere paura
io le dico anche perché le so suonare e le so cantare
ma potrei anche dirle freddamente
come piacerebbe ai rappresentanti di juke box
o a quelli che ripetono le sole parole delle canzoni
senza conoscere i motivi.
A quattr'occhi chissà,
potrei anche essere tentato di fare una bella figura con loro
recitando il credo per sette ore e mezza
ma in teatro preferisco sentire o ripetere:
"Chi è di scena?"