Dice che è una questione di linguaggi».
«Linguaggi?».
Lei fece lo sguardo affilato che le conoscevo bene.
«Non linguaggi per scrivere romanzi» disse e mi turbò il tono svalutativo con cui pronunciò la parola romanzi, mi turbò la risatina che seguì. «Sono linguaggi di programmazione. La sera, dopo che il bambino s’è addormentato, Enzo si mette a studiare».
Aveva il labbro inferiore secco, spaccato dal freddo, il viso sciupato dalla fatica. Eppure con quale fierezza aveva pronunciato: si mette a studiare. Capii che, malgrado la terza persona singolare, non s’era appassionato solo Enzo a quella roba.
«E tu che fai?».
«Gli tengo compagnia: lui è stanco e da solo gli viene da dormire. Insieme invece diventa bello, uno dice una cosa, uno ne dice un’altra. Lo sai cos’è un diagramma a blocchi?».
Scossi la testa. Gli occhi allora le diventarono piccolissimi, mi lasciò il braccio, cominciò a parlare per tirarmi dentro a quella sua nuova passione. Nel cortile, tra l’odore del falò e quello greve dei grassi animali, della carne, dei nervi, questa Lila incappottata ma anche chiusa in un grembiule blu, le mani tagliate, arruffata, pallidissima, senza ombra di trucco, riprese vita ed energia. Parlò di riduzione d’ogni cosa all'alternativa verofalso, citò l’algebra booleana e tante altre cose di cui non sapevo nulla. Eppure le sue parole, al solito, riuscirono a suggestionarmi. Mentre parlava, vidi la casa poverissima di notte, il bambino che dormiva nell'altra stanza; vidi Enzo seduto sul letto, fiaccato dalla fatica ai locomotori di chissà quale fabbrica; vidi lei stessa, dopo la giornata alle vasche di cottura o allo spolpatoio o alle celle a meno venti gradi, che sedeva con lui sulle coperte.
Li vidi entrambi nella luce formidabile del sacrificio del sonno, ne sentii le voci: facevano esercizi coi diagrammi a blocchi, si allenavano a ripulire il mondo dal superfluo, schematizzavano le azioni d’ogni giorno secondo due soli valori di verità: zero e uno.
Parole oscure nella stanza miserabile, sussurrate per non svegliare Rinuccio.
Capii che ero arrivata fin là piena di superbia e mi resi conto che – in buona fede certo, con affetto – avevo fatto tutto quel viaggio soprattutto per mostrarle ciò che lei aveva perso e ciò che io avevo vinto. Ma lei se ne era accorta fin dal momento in cui le ero comparsa davanti e ora, rischiando attriti coi compagni di lavoro e multe, stava reagendo spiegandomi di fatto che non avevo vinto niente, che al mondo non c’era alcunché da vincere, che la sua vita era piena di avventure diverse e scriteriate proprio quanto la mia, e che il tempo semplicemente scivolava via senza alcun senso, ed era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell’una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell’altra.