Sono passati i giorni. Ho guardato nella posta
elettronica, in quella cartacea, ma senza speranza. Io ho scritto spessissimo a
lei, lei non mi ha quasi mai risposto: questa è stata sempre la consuetudine.
Preferiva il telefono o le lunghe notti di chiacchiere quando andavo a Napoli. Ho
aperto i miei cassetti, le scatole di metallo dove conservo cose di ogni
genere. Poche. Ho buttato via tanta roba, in particolare ciò che la riguardava,
e lei lo sa. Ho scoperto che non ho niente di suo, non un’immagine, non un
biglietto, non un regalino. Mi sono sorpresa io stessa. Possibile che in tutti
questi anni non mi abbia lasciato niente di sé, o, peggio, io non abbia voluto conservare
alcunché di lei? Possibile.
Rino è andato in camera sua e si è reso conto che non
c’era niente, nemmeno uno dei vestiti di sua madre, né estivi né invernali,
solo vecchie grucce. L’ho mandato in giro a frugare per casa. Sparite le
scarpe. Spariti i pochi libri. Sparite tutte le foto. Spariti i filmini.
Sparito il suo computer, anche i vecchi dischetti che si usavano una volta,
tutto, ogni cosa della sua esperienza di strega elettronica che aveva cominciato
a destreggiarsi coi calcolatori già sul finire degli anni Sessanta, all’epoca
delle schede perforate. S’è tagliata via
da tutte le foto. È sparita persino la scatola con i documenti: che so, vecchi certificati
di nascita, contratti telefonici, ricevute di bollette. Lila come al solito
vuole esagerare, ho pensato. Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia.
Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare
tutta la vita che si era lasciata alle spalle. Mi sono sentita molto
arrabbiata. Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il
computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia