C’è un fanciullo che incontro nelle mie
passeggiate, un fanciullo un poco strano.
Ha qualcosa di me, di me lontano
nel tempo; un passo strascicato e molle
di bestia troppo in libertà lasciata;
la folla schiva entro le anguste vie,
ama le barche piene di cipolle
e di capucci; tutto esplora, il nuovo
porto, la diga: ed oggi lo ritrovo,
fermo, la bella testina abbassata,
lo sguardo immobilmente a terra chino.
«Che mai sarà, bambino?»
Perché mai cosí intento? E che può dire
solo a se stesso, un chiaro giorno, all’ombra
d’una vela, ove già la riva è sgombra,
questo indimenticabile monello?
che può fargli piú niente altro vedere
che il suo mondo, anche in vista impallidire
come un appassionato, dargli un bello
diverso che di giovane animale?
Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare
che il suo cuore non debba ancor sapere
quella che in ogni nostra cura è ascosa,
malinconia amorosa.
Meglio in un lungo avventuroso sogno
il suo ben corrucciato occhio s’interna.
Anche gli è a noia la casa paterna,
un carcere la scuola; e forse è nulla
di tutto questo; è appena un’ombra vana
che insegue, un indistinto ancor bisogno
di esplorare più addentro che la brulla
collina, e il porto, e lunghe vie remote;
un bisogno onde presto si riscuote,
sospettoso mi guarda, e si allontana
con quel suo passo strascicato e molle
delle bestie satolle.