mercoledì 29 agosto 2018
Un giorno moriremo, ma il canto viene prima.
Nonna tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,
sola ad aprire imposte e ricevere il sole,
accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni con lo strofinio appena udibile dei tuoi pasi,
entrando dalla parte del giorno a restituirmi il mondo nella fragranza del caffellatte.
Non dimentico nulla, io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti,
del tuo gusto per il lilla che ti fa come una cenere di colombe fra i capelli e le guance,
e sento un’altra volta il soave andare delle pantofole che ti portai dal Cile.
E sto vedendo la lunghissima treccia che tu lasci libera
quando ti alzi, come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
Tu non lo sai, nonna, però in te finisce il tempo, la successione dei giorni e delle s’piagge, delle aule e dei pianti, dell’amore nei suoi mille specchi, dell’uomo e del bambino che riconciliano le loro distanze nei tuoi occhi, oh paese della pace.
Ti vedo e sono piccolo e sono proprio io, e niente impedisce che il piccolo e l’uomo ti diano lo stesso bacio e si rifugino nel tuo abbraccio. Questi capelli che tu accarezzi e che pettinasti per la prima volta, questa fronte che stai baciando e che lavasti dal sudore della nascita, queste mani che vanno per il mondo palpando i suoi bei vuoti, e che guidasti nel primo incontro con il cucchiaio e la palla,
tornano al posto del riposo, e non se ne vanno, nonna,
sebbene io viva alzato verso tante rotte, e non se ne vanno, nonna.
La nonna spunta con il giorno a visitare l’orto e le galline
spartisce l’acqua e il mais, ammira i pomodori e i loro progressi,
e gode del racemo che si inerpica, del lampadario delle prugne regine claudie,
e va per le profondità della casa distribuendo l’ordine.
A volte mi alzo, l’accompagno e, associato ai suoi riti,
do da mangiare agli uccelli e irrigo le veccie, sento il tremito dell’acqua sui rampicanti che bucano i muri e che la ricevono crepitando e si riempiono
di scintille.
Ho dieci anni, vivo insieme ai bruchi e alle anatre, sono tenero e crudele,
ammazzo e proteggo, ordino come un re le cose del mio regno,
e sopra di me sta la nonna, le arrivo già all’altezza delle spalle, sulla punta dei piedi arrivo a baciarla,
e i nostri occhi si scoprono nell’allegria comune dei polli nati durante la notte. Il nostro giardino durò quanto l’infanzia. Né tu né io lo dimenticheremo,nonnina.
Non dimenticheremo il sapore delle pesche bianche,
delle barbabietole, delle zucche incendiate.
Fu il tempo del riso al latte coperto di cannella, del piacere delle pannocchie sulla tavola tesa sotto i pergolati.
Stai nella cucina in penombra, con i glicini alla porta,
e curi le cadenze delle bacinelle di gelatina,
le marmellate invernali che ordinerai nella credenza.
Io sto lì, con Giulio Verne e una botta al ginocchio,
felice, guardandoti, sicuro che niente potrà mai accadermi, che in mezzo al mare o all’assalto del polo con il capitano Hatteras, o appeso al cielo con Michel Ardan,
tu mi tieni con te, vicino al fornello da cui l’aroma
inzuccherato cresce come un soave vulcano dipinto a lapis.
Un giorno moriremo, ma prima viene il canto.
E non solo ieri, nonna. A ogni svolta stai lì, piccola
sotto l’architrave, imbacuccata nella tua vecchiezza
senza macchia, nella tua piccola salute,
e ogni volta che mi trae da porte e passi e uomini,
io so che tu stai lì. E che il tuo amore senza altra causa che se stesso
ci sostiene nella notte e ci restituisce l’alba dell’incontro,
e il tempo gira la testa e ci accetta interi,
con il bambino che piange tra le tue braccia,
con il viaggiatore che si lava della polvere nel tuo sorriso,
con la giovane nonna che corre in mezzo alla neve per rallegrare il nipote,
con questa vecchietta che sostiene sulla soglia la lampada del benvenuto.
E il primo che muoia sappia che niente muore
e che la perfezione regnò nel suo giorno.
Nonna tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,
sola ad aprire imposte e ricevere il sole,
accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni con lo strofinio appena udibile dei tuoi pasi,
entrando dalla parte del giorno a restituirmi il mondo nella fragranza del caffellatte.
Non dimentico nulla, io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti,
del tuo gusto per il lilla che ti fa come una cenere di colombe fra i capelli e le guance,
e sento un’altra volta il soave andare delle pantofole che ti portai dal Cile.
E sto vedendo la lunghissima treccia che tu lasci libera
quando ti alzi, come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
Tu non lo sai, nonna, però in te finisce il tempo, la successione dei giorni e delle s’piagge, delle aule e dei pianti, dell’amore nei suoi mille specchi, dell’uomo e del bambino che riconciliano le loro distanze nei tuoi occhi, oh paese della pace.
Ti vedo e sono piccolo e sono proprio io, e niente impedisce che il piccolo e l’uomo ti diano lo stesso bacio e si rifugino nel tuo abbraccio. Questi capelli che tu accarezzi e che pettinasti per la prima volta, questa fronte che stai baciando e che lavasti dal sudore della nascita, queste mani che vanno per il mondo palpando i suoi bei vuoti, e che guidasti nel primo incontro con il cucchiaio e la palla,
tornano al posto del riposo, e non se ne vanno, nonna,
sebbene io viva alzato verso tante rotte, e non se ne vanno, nonna.
La nonna spunta con il giorno a visitare l’orto e le galline
spartisce l’acqua e il mais, ammira i pomodori e i loro progressi,
e gode del racemo che si inerpica, del lampadario delle prugne regine claudie,
e va per le profondità della casa distribuendo l’ordine.
A volte mi alzo, l’accompagno e, associato ai suoi riti,
do da mangiare agli uccelli e irrigo le veccie, sento il tremito dell’acqua sui rampicanti che bucano i muri e che la ricevono crepitando e si riempiono
di scintille.
Ho dieci anni, vivo insieme ai bruchi e alle anatre, sono tenero e crudele,
ammazzo e proteggo, ordino come un re le cose del mio regno,
e sopra di me sta la nonna, le arrivo già all’altezza delle spalle, sulla punta dei piedi arrivo a baciarla,
e i nostri occhi si scoprono nell’allegria comune dei polli nati durante la notte. Il nostro giardino durò quanto l’infanzia. Né tu né io lo dimenticheremo,nonnina.
Non dimenticheremo il sapore delle pesche bianche,
delle barbabietole, delle zucche incendiate.
Fu il tempo del riso al latte coperto di cannella, del piacere delle pannocchie sulla tavola tesa sotto i pergolati.
Stai nella cucina in penombra, con i glicini alla porta,
e curi le cadenze delle bacinelle di gelatina,
le marmellate invernali che ordinerai nella credenza.
Io sto lì, con Giulio Verne e una botta al ginocchio,
felice, guardandoti, sicuro che niente potrà mai accadermi, che in mezzo al mare o all’assalto del polo con il capitano Hatteras, o appeso al cielo con Michel Ardan,
tu mi tieni con te, vicino al fornello da cui l’aroma
inzuccherato cresce come un soave vulcano dipinto a lapis.
Un giorno moriremo, ma prima viene il canto.
E non solo ieri, nonna. A ogni svolta stai lì, piccola
sotto l’architrave, imbacuccata nella tua vecchiezza
senza macchia, nella tua piccola salute,
e ogni volta che mi trae da porte e passi e uomini,
io so che tu stai lì. E che il tuo amore senza altra causa che se stesso
ci sostiene nella notte e ci restituisce l’alba dell’incontro,
e il tempo gira la testa e ci accetta interi,
con il bambino che piange tra le tue braccia,
con il viaggiatore che si lava della polvere nel tuo sorriso,
con la giovane nonna che corre in mezzo alla neve per rallegrare il nipote,
con questa vecchietta che sostiene sulla soglia la lampada del benvenuto.
E il primo che muoia sappia che niente muore
e che la perfezione regnò nel suo giorno.
Uscì a camminare per il centro, la mattina. S'aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte; le facciate delle case, dalla siepe grigia delle saracinesche abbassate alle infinite stecche delle persiane, erano chiuse come spalti. Per tutto l'anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo
Venne il tram, evanescente come un fantasma, scampanellando lentamente; le cose esistevano appena quel tanto che basta; per Marcovaldo quella sera lo stare in fondo al tram, voltando la schiena agli altri passeggeri, fissando fuori dai vetri la notte vuota, attraversata solo da indistinte presenze luminose e da qualche ombra più nera del buio, era la situazione perfetta per sognare a occhi aperti, per proiettare davanti a sé dovunque andasse un film ininterrotto su uno schermo sconfinato.
Così fantasticando aveva perso il conto delle fermate; a un tratto si domandò dov'era; vide il tram ormai quasi vuoto; scrutò fuori dai vetri, interpretò i chiarori che affioravano, stabilì che la sua fermata era la prossima, corse all'uscita appena in tempo, scese. Si guardò intorno cercando qualche punto di riferimento. Ma quel poco d'ombre e luci che i suoi occhi riuscivano a raccogliere, non si componevano in nessuna immagine conosciuta. S'era sbagliato di fermata e non sapeva dove si trovava.
Così fantasticando aveva perso il conto delle fermate; a un tratto si domandò dov'era; vide il tram ormai quasi vuoto; scrutò fuori dai vetri, interpretò i chiarori che affioravano, stabilì che la sua fermata era la prossima, corse all'uscita appena in tempo, scese. Si guardò intorno cercando qualche punto di riferimento. Ma quel poco d'ombre e luci che i suoi occhi riuscivano a raccogliere, non si componevano in nessuna immagine conosciuta. S'era sbagliato di fermata e non sapeva dove si trovava.
Acchiappa acchiappa chello ca se move
e intanto 'o popolo vo'
strate nove
tu staje buono si ?
Hà 'a murì' !
Acchiappa acchiappa
chest'ata semmana
e intanto 'o masto nce ha
pisciato 'mmano
tu staje buono si?
Hà 'a murì'!
E se parli troppo in
fretta
nun se capisce niente
cchiù
staje c'o core int'e
cazette
e alluccanno dice ca so'
vivo
finchè so' vivo nun me
puo' tuccà'
Acchiappa acchiappa ca
niente è perduto
c'o mariuolo 'ncuorpo so'
fujuto
tu staje buono si ?
Hà 'a murì'!
Acchiappa acchiappalo pe
coppa 'e logge
primma ca ce fermano sto
rilogio
tu staje buono si ?
Hà 'a murì'!
E nce abboffano 'e parole
po ce 'mparano a parlà'
ce hanno astritto
'nfaccia 'o muro
ma alluccanno dice ca so'
vivo
finchè so' vivo nun me
puo' tuccà'
i' so' vivo
finchè so' vivo nun me
puo' tuccà'
Nuje 'a dinto 'e case nun
ghittammo niente
sempe quaccosa ce po'
servì'
guardanno 'a robba
vecchia pare nova
nuje 'a dinto 'e case
guardammo fora
e dinto 'o suonno amma
murmulià'
lasciavemo 'a jurnata
e mo nun basta a niente.
quando i bisogni di crescita dei bambini non vengono ignorati e rifiutati, il vigore dei giovani dissipato e le famiglie e i quartieri rimangono coesi come unità di difesa e reciprocità, e quando la possibilità di trascendenza artistica o religiosa è affidata alle rituali e infinite forme di cultura espressiva, allora potremmo fiduciosi predire la sopravvivenza di quelle capacità di gioia e sacrificio che includiamo nella familiare categoria dell’umano
cocche cumpagno mio ha fatto nu figlio,
je ancora teng‘a capa ca nun piglia
pure si nun te muove, t’o sciglie,
‘o tiemp nun tene maniglie
tu te piense ca ‘o ‘cchiappe, ma
tutte cose cagna,
Ogni magagna mì m’ha dat ‘o fuoco,
e ogni ‘juorne che torno pe’ mme è ancora poco,
senza ca te ranno e chiagne
mo c’ho damme, primma ca tutte cose cagna
je ancora teng‘a capa ca nun piglia
pure si nun te muove, t’o sciglie,
‘o tiemp nun tene maniglie
tu te piense ca ‘o ‘cchiappe, ma
tutte cose cagna,
Ogni magagna mì m’ha dat ‘o fuoco,
e ogni ‘juorne che torno pe’ mme è ancora poco,
senza ca te ranno e chiagne
mo c’ho damme, primma ca tutte cose cagna
crisciuto senza scuse e senza aiuto
me ricevo nun era brutto
e già da tanno nun l'aggio creruto
sunnavo tanti ccose e in buona parte nun l'aggie avuto
e cu sti mmane aropp'a frana è continuata a sagliuta
'a capa se fa bianca a tratti
mentre aumentano 'e rimpianti tutt'e ricorde re' fatte
se fa l'ossa chille ch'era piccerille
se fa ruosse' sott'all'uocchie addiventa omme 'e l'avive visto nennillo
a dieci anni me crerevo ca papà era immortale
pò capette ca nun'era o'vero 'na matina dint'a 'na stanza 'e spitale
mammà scennette a faticà doppe vint'anne a casa
là perdette 'a capa 'ntase attacche 'e panico e crack
chello ca nun t'accire t'ammacca
ogni brivido è nu livido 'o mumento ca ciacca
ogni limite è nu stimolo e pe chesto che torno
notte e juorne
e saccio ca pure io cagno forma
me ricevo nun era brutto
e già da tanno nun l'aggio creruto
sunnavo tanti ccose e in buona parte nun l'aggie avuto
e cu sti mmane aropp'a frana è continuata a sagliuta
'a capa se fa bianca a tratti
mentre aumentano 'e rimpianti tutt'e ricorde re' fatte
se fa l'ossa chille ch'era piccerille
se fa ruosse' sott'all'uocchie addiventa omme 'e l'avive visto nennillo
a dieci anni me crerevo ca papà era immortale
pò capette ca nun'era o'vero 'na matina dint'a 'na stanza 'e spitale
mammà scennette a faticà doppe vint'anne a casa
là perdette 'a capa 'ntase attacche 'e panico e crack
chello ca nun t'accire t'ammacca
ogni brivido è nu livido 'o mumento ca ciacca
ogni limite è nu stimolo e pe chesto che torno
notte e juorne
e saccio ca pure io cagno forma
lungo po antonelli
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