giovedì 5 febbraio 2015

Piazza del Gesù


 di Stelvio Di Spigno
In ricordo di Filippo Viola (1980-2005)
www.leparoleelecose.it
Tutto comincia con un sogno. Non potrebbe essere diversamente. Siamo nella grande spianata della Piana di Montevergine, una vasta estensione di verde sopra la testa del Santuario della Madonna omonima, che mia madre scelse per la sua devozione al momento di battezzarmi. Visto che Stelvio è negletto dai calendari, il nome sarebbe stato Stelvio Bruno, in onore della Madonna Bruna di Montevergine, appunto. Per questo festeggio l’onomastico ogni anno il primo settembre, quando il santuario si riempie di pellegrini da tutto il sud Italia venuti per la festa annuale della Madonna Bruna. Il sogno è questo: la spianata è inondata dal sole, è una giornata di primavera, ma di una primavera all’antica, con l’odore del muschio, dell’erba, dei fiori. Di erba soprattutto. Sulla Piana ci sono le canne, l’erba è alta, a volte arriva fino al torace, a volte non ci si vede per niente. In lontananza si vedono dei ragazzi che giocano a pallavolo, fanno movimenti rapidi, sembrano felici. Ne noto uno soprattutto, sorridente: è il mio amico Filippo Viola, morto nel 2005 a 25 anni. Quando lo seppi, era il 12 dicembre del 2012. Sì, proprio il 12-12-12. Un giorno nefasto: da allora temo le coincidenze dei calendari. Ma in quella giornata così amara per me, tutto potevo immaginare tranne che avrei saputo che il mio solo amico, quello che considero il compagno unico e insostituibile della mia scapigliata giovinezza, fosse morto, e per di più suicida. Erano dieci anni che non lo sentivo. Ho traccheggiato anni prima di chiamare casa sua per avere sue notizie. L’ultima volta che uscimmo insieme era il 2003. Era febbraio. Filippo non amava la gente che si allontanava e poi si rifaceva viva per sapere come va la vita. Meno che mai digeriva quelli che si riavvicinavano per tornare a uscire con lui. Per lui, una volta che un rapporto di amicizia era finito, era finito e basta. Per me, che non l’ho mai dimenticato, proprio perché temevo una sua risposta infastidita o di cortesia fredda e senza slancio, c’è stata l’attesa. Quasi dieci anni di attesa per trovare il coraggio di prendere il cellulare e chiamare casa sua. Non lo avessi mai fatto.
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La vita è fatta di ricordi e di luoghi. Il luogo dove io e Filippo ci incontrammo per la prima volta è Piazza del Gesù Nuovo a Napoli. Era una sera di ottobre del 1998. Io avevo 23 anni, lui 18. Eravamo


pieni di vita, di speranze, di voglia di divorare insieme quella porzione di sera e di notte che si sarebbe tradotta per noi nella cognizione precisa di una libertà che allora credevamo senza confini. Non avevamo niente da perdere. Non avevamo limitazioni, di alcun genere. Non avevamo pensieri né preoccupazioni. Il mondo ordinato del lavoro e dell’età adulta non era ancora neanche all’orizzonte. Era tutto stupendo. Luminoso. Cristallino. Diventammo subito amici. In lui rivedevo mio fratello, con il quale, per un pudore che non so spiegare, i rapporti sono sempre stati fragili, al limite dell’inconsistenza. Filippo era premuroso, pieno d’idee, amava la musica, organizzava feste dark nei localini del centro storico che si trasformavano in veri e propri eventi dove confluivano tutti gli abitatori occasionali della piazza, che più che un luogo di ritrovo era, allora, uno sconfinato insieme di tribù che sciamavano e confluivano sempre nei soliti luoghi di transito: il Kinky Bar, Lazzarella, il Velvet, il Sanacura. All’inizio, darsi appuntamento proprio in quella piazza mi pareva qualcosa di blasfemo. Nella basilica del Gesù Nuovo, vecchia piazzaforte spagnola, borchiata di cemento, cambiata di vocazione non so quante volte e infine diventata una chiesa, si erano sposati i miei genitori, il 20 aprile del 1974. Poi piano piano lo scrupolo passò e la sera incontrarsi lì diventò un rito. Io ero quello che arrivava sempre per primo. Aspettavo gli altri che, con ritmi molto più rilassati, arrivavano in piazza verso le 22.30 o le 23.00. Io ero lì, col cuore in gola, dalle 21.30. Avevo sempre paura che gli altri non arrivassero, che l’appuntamento saltasse. All’epoca telefonare al cellulare costava un occhio della testa, e poi non mi andava di apparire assillante con i miei dove siete? quando arrivate? vi aspetto qui. Quindi aspettavo e basta. Si presentavano a orario da cavaliere, sotto l’insegna di Lazzarella (il bar dove tutti, in piazza, facevano un giro anche se non ne avevano voglia, tanto è centrale), Filippo, suo fratello Eugenio, un loro cugino di rara simpatia e umanità, Peppe, e via via tutti gli altri. Vederli era come rinascere, le serate cominciavano col solo fatto che loro, per un particolarissimo miracolo che si verificava ogni sera, arrivavano lì e io smettevo di essere e di sentirmi solo. Tutto ciò che sarebbe avvenuto dopo, era la conseguenza di questo miracolo.
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La piazza era un punto di partenza. Ma dirlo in questo modo non è del tutto esatto. Diciamo che doveva essere, nelle nostre intenzioni, un punto di partenza. Ma poi capitava che ci si sbronzasse e si fumasse troppo, e quindi da punto di partenza, piazza del Gesù, chiamata in gergo giovanile napoletano ‘o scasso (dato che spesso era così tanto l’alcol che scorreva da diventare un carnaio di gente pronta a tutto pur di finire la serata in bellezza, magari rimorchiando una ragazza e portandosela via), diventava fatalmente un punto d’arrivo, il luogo dei mille incontri e di centinaia di persone che si conoscevano per la prima volta e restavano a bere fino a notte fonda. Di fronte c’era sempre, appoggiato al muro dell’adiacente Liceo Genovesi, una camionetta di poliziotti. Le gradinate di fronte a loro erano piene di gente seduta che fumava erba e che li sfidava. Ma un po’ per il fatto che erano innocui, un po’ per l’evidente sproporzione numerica tra poliziotti e abitatori notturni della piazza, i tutori dell’ordine restavano rintanati nella camionetta a guardarci. Che ci identificassero pure, era il pensiero ricorrente. Cosa possono farci? Mandarci in galera per una canna? E così si fumava e si beveva, il tempo passava, la notte si faceva allegra, la gente aumentava a vista d’occhio. Io, Filippo e gli altri amici ci inventavamo qualcosa per dare un senso al nostro rivederci. Ma il senso era semplicemente stare insieme. «Insieme» è la parola che meglio connota quegli anni, quel tempo senza tempo, quel modo di esistere che è la giovinezza che per molti versi ho sacrificato agli studi universitari e all’amore disgraziato per una donna che mi faceva sentire, spesso e con deliberata violenza, l’ultimo degli uomini. Ma lei abitava a Roma. A Napoli era tutta un’altra storia. Lì ci sentivamo in grado di fare tutto. E lo facevamo. Che si andasse a ballare musica dark messa su dal nostro dj di fiducia Marco, che si restasse e si passasse alle droghe quelle serie, che si finisse a letto con qualche frequentatrice della piazza, il nostro comune sentire era quello di essere liberi, quasi nudi, di fronte a tutta quella libertà verso la quale anche il più scapestrato di noi sentiva una specie di venerazione. Sapevamo di essere giovani, e che quello stato di cose non sarebbe durato all’infinito. Quindi bisognava divertirsi e farlo subito. Non che questo fosse un ragionamento cosciente, tutt’altro. Ma il senso di gratitudine verso la vita che ci permetteva di essere lì, in quel preciso momento e col vento in poppa, era qualcosa che pareva avere una cittadinanza segreta nei nostri pensieri. Io la conservo ancora, quella gratitudine. Perché ci sono stato, io, a Piazza del Gesù, in quegli anni frenetici. E anche se tutto nel breve giro di qualche tempo fosse finito, e persino se la piazza e gli amici fossero svaniti la mattina dopo come succede in certi film di fantascienza, valeva la pena esserci, anche solo per un minuto. Ed io ci sono stato. Noi ci siamo stati. Per circa 4 anni, sera dopo sera, in uno stato di ebbrezza non priva di rischi ma autentica, genuina, vitale. Era la nostra realtà.
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La Piazza del Gesù di oggi è antropologicamente assai diversa. Ci sono i turisti, i ristoranti col menu fisso a 20 euro. C’è una generazione di giovani che non osa neanche lontanamente pensare di fare ciò che facevamo noi alla loro età. Le tribù sono sparite. La piazza è diventata una ztl con tanto di varco e telecamera. I poliziotti e i carabinieri sono sempre lì, con le loro auto con quei lampeggianti azzurri che sanno di maledizione e sono piuttosto lugubri, nel seno di una piazza che è quasi sempre deserta. O forse, più semplicemente, siamo noi che non siamo più del mestiere. Io sono cresciuto, Filippo è morto, i miei amici sono lontani e non ci si incontrerà, quasi sicuramente, mai più. Quando ripasso per quei luoghi, e ci ripasso spesso, visto che al Gesù Nuovo vado a messa la domenica ogni volta che posso, vengo colto da una cupezza indecifrabile. Sento qualcosa di sgradevole che lentamente sfocia in un’indifferenza per tutto ciò che mi sta intorno. Se Filippo fosse vivo avrei potuto, come mia abitudine, mitizzare quel periodo passato insieme fino a farlo salire al rango di una vera e propria età dell’oro. Ma senza di lui, questa età dell’oro ha come una gamba rotta o un pilastro mancante. Traballa, è instabile, non è più completa. La morte, la negatività del vivere è arrivata anche lì, nel cuore dei ricordi. È da questo che proviene il disagio che sento. Oggi posso solo pregare per quell’amico con il quale ho scoperto la vita e che se non fosse nato in un quartiere come Scampia, se avesse avuto anche una sola possibilità di lavoro e di integrazione, sono sicuro che sarebbe ancora fra noi. Era sensibile, intelligente, abile e svelto di pensiero. Amava il mondo della musica e voleva starci dentro, anche solo come microfonista. Chi non conosce il sud, non sa quante persone meravigliose, e per questo più fragili, sono state divorate da questo passaggio generazionale che ha tolto a noi tutto quel poco che era riuscito a dare ai nostri genitori. Al centro e a nord è differente. Anche se non c’è lavoro si vive lo stesso. Qualcosa per tirare avanti si trova sempre. Non si avverte quel clima di disperata rassegnazione e voglia di farsi del male che si vive da noi. Ma vallo a spiegare alla gente. Non è difficile. È inutile. Per questo ci ho rinunciato da tempo. Filippo è stata una delle vittime di questa mattanza invisibile. Non esistono solo i martiri delle dittature militari, dei fascismi e dei comunismi, gli eroi della piazze che inneggiano alle libertà civili. C’è stata una guerra senza armi, negli ultimi 25 anni. I padroni dell’economia hanno sottratto possibilità esistenziali alle giovani generazioni perché non essendoci danari per tutti, è chiaro che ad averli debbano essere sempre gli stessi. Chi racconterà questo subdolo genocidio? Chi verrà condannato per questa strage sistematica, antica ed efficiente come i lager e i gulag? Chi dirà quale effetto tutto questo ha avuto su un territorio già martoriato socialmente come il Meridione d’Italia? Nessuno. Perché non è successo nulla. Non c’è stato nulla. Nessuno ne sa niente. Altra gente verrà a Piazza del Gesù, pagherà il pranzo con la carta di credito e andrà via. Altri giovani napoletani si daranno appuntamento come facevamo noi, poi prenderanno la via del nord, emigreranno in paesi stranieri o si accontenteranno di morire a Napoli, giorno dopo giorno, aspettando la raccomandazione che non arriva, l’occasione che qualcun altro ti sfila quando sembra fatta, il tempo che scorre inesorabile, la povertà che incombe. Ma questa piazza, tutte queste cose le sa fin troppo bene. È per questo che ogni volta che ci ritorno mi sforzo di trattenere le lacrime. Sarebbe darla vinta a chi ci ha sterminato. Quel tempo passato insieme ai miei amici, e soprattutto la mia e la loro giovinezza, non meritano questa umiliazione. E poi proprio da me, che ne sono il testimone e il custode, per non so quale disegno di Dio rimasto vivo fino a oggi, mentre tanti miei coetanei, persone eccellenti sotto tutti i punti di vista, non ci sono più.